Le ultime notizie danno Gheddafi, due dei suoi figli (Saif al-Islam e Saadi) e altri lealisti in fuga verso Bani Walid, località del deserto libico a sud-est di Tripoli, ma se il deposto raìs dovesse decidere di organizzare una resistenza armata in forma di guerriglia, potrebbe facilmente trovare basi a disposizione in territorio straniero, non troppo lontano dai confini della Libia. Papabile sarebbe in questo caso non solo e non tanto l’Algeria, che ha accolto numerosi familiari di Gheddafi e che tuttora è in cattivi rapporti col Consiglio di transizione nazionale creato a Bengasi qualche mese fa e oggi trasferito nella capitale: a non avere ancora riconosciuto i ribelli come legittimi governanti della Libia è la maggioranza dei paesi africani. Benin, Botswana, Burkina Faso, Ciad, Egitto, Etiopia, Gabon, Gambia, Ghana, Guinea, Kenya, Marocco, Niger, Nigeria, Ruanda, Senegal, Sudan, Togo, Tunisia: la lista dei paesi africani che riconoscono il nuovo governo per adesso si ferma qui, 19 su 54. È vero che l’elenco comprende tutti i paesi confinanti con la Libia tranne l’Algeria e i tre paesi più popolosi (Nigeria, Etiopia ed Egitto), ma manca un paese massimo come il Sudafrica e soprattutto manca il visto della principale organizzazione multilaterale della regione: l’Unione Africana (Ua). Il contrasto con la Lega Araba, che ha votato il riconoscimento del Cnt, non potrebbe essere più netto.
Il fatto è che Gheddafi è famoso per le sue interferenze negli affari interni dei paesi africani, ma anche per la sua munificenza, per gli aiuti finanziari e i progetti di sviluppo più o meno assennati di cui ha disseminato l’Africa nera. La Libia del colonnello ha salvato dalla bancarotta paesi come Burkina Faso, Centrafrica, Ciad, Mali e Niger, ha garantito sostegno politico decisivo in momenti delicati al Congo Brazzaville di Dennis Sassou-Nguesso, allo Zimbabwe di Robert Mugabe, alla Guinea Equatoriale (grande produttore petrolifero) di Teodoro Obiang Nguema. La stessa Unione Africana non potrebbe funzionare senza il contributo libico, che copre la maggior parte dei costi. La sede dell’organizzazione è ad Addis Abeba, dove era insediato il suo antenato, l’Organizzazione per l’unità africana (Oua), ma la Ua è stata voluta da Gheddafi in persona ed è nata in base alla dichiarazione della Sirte, dal nome della cittadina natale di Gheddafi dove nel 1999 si riunirono i capi di Stato africani per prendere la decisione.
Gli unici due Stati africani che hanno riconosciuto precocemente il Cnt sono stati il Senegal e il Gambia, vittima di recenti tentativi di infiltrazione libica, e fino all’inizio di agosto sono stati gli unici. Delle recenti defezioni dal fronte africano filo-Gheddafi la più suggestiva è quella del Burkina Faso, che dalla jamahiriya aveva ricevuto aiuti militari e finanziari decisivi in passato. Il presidente Blaise Compaoré, al potere dal 1987, ha pensato bene di cambiare campo una settimana fa, insieme a Nigeria, Ciad ed Etiopia. Ha sostenuto con tutte le forze Gheddafi fin dall’inizio della crisi e continua a farlo ora Robert Mugabe, l’87enne dittatore dello Zimbabwe. In mezzo ci sono tutti gli altri paesi, che non hanno accettato la risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu che ha istituito nel marzo scorso la no-fly zone sopra la Libia (e di fatto ha dato il via ai bombardamenti della Nato) e che hanno appoggiato la mediazione fra i contendenti libici tentata dalla Ua (visibilmente sbilanciata dalla parte del regime del colonnello) attraverso un quadrumvirato di presidenti che comprendeva il capo di Stato sudafricano Jacob Zuma.
Costui oggi ostacola le iniziative per lo sblocco a vantaggio del Cnt dei beni libici congelati da una risoluzione dell’Onu. Il Sudafrica è stato un alleato fidato della Libia di Gheddafi sin dall’ascesa dell’Anc di Nelson Mandela al governo nel 1994: il premio Nobel per la pace condannò l’isolamento internazionale della Libia in forza delle sanzioni del dopo-Lockerbie e cercò di aggirarlo. Il motivo di tanta solidarietà era ed è ancora la gratitudine per gli ingenti aiuti forniti da Gheddafi all’Anc quando questa era un’organizzazione fuori legge in lotta contro il regime dell’apartheid.
Ma non è solo per gratitudine, per aiuti economici e sostegno politico passati e presenti che molti stati africani e la Ua non mollano ancora Gheddafi, e nemmeno per il timore che il metro di giudizio a lui applicato da Onu e Nato (l’urgenza di punire le violazioni dei diritti umani dei sudditi) possa essere in futuro usato contro di loro: anche rispettabili ragioni politiche giustificano la ritrosia degli africani. Essi temono che la Libia del dopo-Gheddafi assomigli molto alla Somalia del dopo-Siad Barre, che dopo la defenestrazione del dittatore nel 1991 non si è più ripresa ed è diventata una fonte di instabilità per il continente e una roccaforte di fondamentalisti islamici. E infine sono convinti che la caduta del colonnello segni il ritorno in forza sul continente delle vecchie potenze coloniali europee, decise a contrastare la recente penetrazione cinese. E su quest’ultimo punto è difficile dare torto sia a loro che allo stesso Gheddafi.