
Carissimo direttore, ti scrivo perché le riflessioni attorno al tema della “libertà di accesso alla dolce morte” sembrano sempre più frutto di un lontano passato che pensavamo di esserci lasciati alle spalle.
Coloro che vorrebbero introdurre nel nostro Paese la possibilità di scelta di come morire, con una propaganda martellante sulla compassione, mirano solo a coprire il vero scopo di tutto questo: diminuire le spese statali derivante dalle cure e dal mantenimento delle persone affetti da disabilità.
Perché i malati costano molto alle casse del nostro Paese, sia in termini di spesa corrente, sia relativamente alle molteplici risposte che bisognerebbe mettere in campo per assicurare una vita dignitosa alle persone.
Montagne burocratiche da scalare solo per ottenere una carrozzina, una scuola decente per tuo figlio, un centro estivo che lo accolga, cure adeguate, viaggi della speranza, case senza barriere, quanto costa prendere una macchina attrezzata? E un letto ospedaliero? La fisioterapia, le cure, le medicine, che costano, non sono esenti. Fino a quando potrò lavorare? E poi che si fa? Questi sono solo alcuni esempi di che cosa deve affrontare una famiglia con un soggetto fragile.
Abbiamo fatto passi avanti in questi anni sul tema dei più fragili? Certamente sì, ma lo spettro di volere cittadini “produttivi” per lo Stato è sempre dietro l’angolo.
Pensiamo che numerosi disabili vengono uccisi ogni giorno già nel grembo materno, nel silenzio delle nostre evolute società occidentali.
Anche nel nostro Paese sta sempre più prendendo piede l’idea della morte come libertà del singolo, che nasconde la triste realtà di non voler affrontare il cuore dei problemi di chi vive una situazione di sofferenza.
La morte come opzione delle persone deboli è l’assunzione di responsabilità da parte dello Stato di eliminazione cosciente di chi in fondo è solo un peso della società, che non produce e non rende come vorrebbe, ingannando la società con pietismo e compassione verso vite considerate “inutili”.
Deborah Giovanati
Lo Stato e le leggi dovrebbero servire esattamente a questo: difendere i deboli dai soprusi dei più forti. Altrimenti non vige lo stato di diritto, ma la legge della giungla, cioè del più forte.
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Ho letto l’articolo relativo al discorso di Biden sulla situazione in Afghanistan. Sono rimasto colpito dai toni e dal giudizio così netto di fronte a una situazione così complessa. Mi sono detto: “caspita, chissà cosa hanno scritto quando Trump ha fomentato l’assalto a Capitol Hill”. Così ho fatto una semplice ricerca: ho inserito sul vostro sito la parola chiave “Trump” e ho cercato la lista degli articoli scritti dopo il 6 gennaio 2021. Non ho trovato nessun articolo di condanna di quello che è stato uno dei più gravi attentati alla democrazia americana, né tanto memo un articolo sulla “Big lie” che Trump continua a diffondere in America sull’esito delle elezioni. Biden nel suo discorso ha ammesso il fallimento americano in Afghanistan, cosa non da poco, e ha chiarito il ruolo dell’America nel prossimo futuro in linea con quanto promesso al popolo americano durante la campagna elettorale, incluso il ritiro dall’Afghanistan. Si può essere d’accordo o non d’accordo con la sua linea politica (io condivido la necessità di ritirare il contingente americano dopo 20 anni, ma non con le modalità con cui è avvenuto), ma banalizzare tutto parlando di menzogne, senza aver mai scritto nulla sulla “Big Lie” di Trump, non rende il Vostro giornale più autorevole.
Fabio Schinelli
Quanto a Biden, ribadiamo il giudizio. Quanto a Trump, lei ha fatto una ricerca un po’ troppo sommaria. Sull’ex presidente noi abbiamo scritto molto, anche a riguardo della vicenda di Capitol Hill. Non so se questo renderà la nostra posizione più o meno “autorevole” rispetto ai suoi standard, in ogni caso può leggere qui (L’erroraccio di Trump) e qui (Risposta ai lettori arrabbiati con noi perché non difendiamo Trump).
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Mi permetto di esprimere una sensazione provata leggendo l’articolo del sig./dott. Del Pozzo: “Ma non dite che Strada era come Madre Teresa”. Nell’insieme sono d’accordo con diverse cose dette, e trovo che su Tempi si leggano notizie e opinioni fuori dal coro.
Nell’articolo l’autore parla bene di trascendenza, di dimensione verticale della fede e della Chiesa, dell’importanza di metterle al primo posto da parte dei cristiani. La sensazione che ho avuto però non è stata quella di un articolo scritto sotto la luce di queste realtà. Mi permetto di dire che a tratti mi è sembrato uno sfogo più che una lettura di fede. Il contenuto e la forma, soprattutto per noi cristiani, non dovrebbero coincidere? Certo ci può essere un sano sdegno ma il confine tra il “sano” cristiano/verticale e il puramente umano/orizzontale è invisibile e difficile da individuare e rispettare.
Credo che la verità sia tra i beni evangelici più alti come la carità e la sum-patia, tutti possibili guardando in alto. Tutti da custodire uniti, altrimenti non rischiamo di risultare dei teorici specializzati in un’unica disciplina?
Vi auguro buon lavoro e di continuare con mansuetudine la buona battaglia.
Don Mauro Fedato
Grazie per la lettera don Mauro, capisco quel che dice, ma lei tenga conto che un po’ di “pepe” in certi articoli ci vuole. De mortuis nil nisi bonum, come si dice, e va bene, infatti certi meriti sia del Pozzo sia Casadei glieli hanno riconosciuti, ma Gino Strada non era certo il nostro tipo (anni fa ci querelò e si portò a casa un bel gruzzoletto). Quindi, come ha scritto Del Pozzo, giusto riconoscere il bene compiuto, ma almeno non facciamolo diventare un “santino”.
Foto Ansa