
Vita da cavie
«Vedremo presto in clinica i benefici delle cellule staminali, ma non come la gente immagina», ha dichiarato Ernest Arenas, del Karolinska Institute a Stoccolma. «La più grande richiesta è per i test di tossicità. I saggi con le cellule staminali embrionali si stanno dimostrando particolarmente adatti per testare l’embriotossicità, perché sono più applicabili agli umani rispetto ai test standard basati sui topi» aggiunge Raimund Strehl. In altre parole: non saranno le terapie di malattie incurabili i primi risultati delle ricerche sugli embrioni umani.
Di quelle ancora non si sa nulla. Le preziose cellule staminali derivate dagli embrioni sono invece già molto richieste per verificare la tossicità dei prodotti chimici, perché sugli embrioni umani i test promettono di funzionare meglio che sugli animali. Se ne parla poco – usare gli embrioni umani al posto degli animali suona meno attraente della ricerca di applicazioni terapeutiche, anche se, purtroppo, ancora lontane a venire – ma nei laboratori si lavora già tanto. I test tossicologici in laboratorio, anche su cellule staminali embrionali umane anziché su animali sono infatti uno dei punti “qualificanti” del primo progetto finanziato dall’Unione Europea che prevede l’uso delle cellule staminali embrionali umane. Nove milioni di euro, nello scorso sesto programma quadro.
Si chiama Reprotect, vi partecipano 35 soggetti, fra università, centri di ricerca e industrie, e sono coinvolti anche ricercatori italiani, dell’istituto Spallanzani di Cremona, dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Enea. Lo scopo della ricerca è la messa a punto di test alternativi a quelli che coinvolgono animali, riguardanti la «tossicità riproduttiva e di sviluppo», cioè per la verifica della tossicità di prodotti chimici nel processo riproduttivo e nello sviluppo umano. è coordinato scientificamente da Michael Schwarz, del Dipartimento di Tossicologia dell’Università di Tubinga, ed è all’interno di una linea di azione molto più vasta che vede come protagonisti il Centro europeo per la convalida dei metodi alternativi (Ecvam, European Centre for Validation of Alternative Methods), che fa parte dell’Istituto per la Salute e la protezione del consumatore, con sede ad Ispra (Varese), uno dei sette istituti scientifici del Commission’s Joint Research Center (Jrc), il centro di riferimento delle politiche scientifiche e tecnologiche dell’Unione Europea, a servizio della Commissione europea.
Tutto comincia a Bruxelles
Un libro bianco per l’armonizzazione dei test delle sostanze chimiche, pubblicato nel 2001 e l’introduzione del Reach (un nuovo sistema per la registrazione, valutazione e autorizzazione di prodotti chimici nuovi e già esistenti) nel 2003. Per via di queste di-
sposizioni emanate dalla Commissione europea circa 30 mila composti chimici già sul mercato debbono essere di nuovo testati con sperimentazioni in vivo che richiedono 10 milioni di animali (solitamente topi, conigli, alcuni primati). I test possono richiedere molto tempo: quelli che controllano l’eventuale tossicità dei prodotti nei processi di sviluppo, ad esempio, comportano studi in vivo su più generazioni di animali.
I costi dell’intera operazione sono elevati: l’applicazione delle direttive Reach è stimata in 2.130 milioni di euro, di cui il 55 per cento per test di tossicità riproduttiva e di sviluppo. Troppo di tutto: troppi animali, troppo tempo e troppi soldi necessari. C’è bisogno urgente di metodiche alternative, in vitro, cioè in laboratorio. Ad accelerare la richiesta di test alternativi sono intervenute anche nuove direttive europee specifiche per l’industria cosmetica: dall’11 settembre 2004 sono proibite le sperimentazioni dei prodotti finiti sugli animali, e dall’11 marzo 2009 i test sui componenti dei cosmetici saranno comunque vietati anche se non esistono sperimentazioni alternative a quelle animali. Entro la stessa data non si potranno commercializzare prodotti testati su animali, con alcune eccezioni per cui il divieto slitta al 2013. A stabilire l’affidabilità dei nuovi metodi è l’Ecvam: dal 1992 si occupa di sperimentazione alternativa, per eliminare, o almeno ridurre o comunque ottimizzare l’uso di animali nei test, mediante tecniche in vitro, cioè colture di cellule e tessuti in laboratorio, e in silico, vale a dire modelli computerizzati che sfruttano le relazioni fra l’attività biochimica, biocinetica, fisiologica e la struttura chimica.
Una volta convalidate, le procedure entrano a far parte della legislazione europea, e vengono poi presentate all’Ocse (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, a cui aderiscono 30 paesi), diventandone linee guida internazionali per gli stati membri, ed eventualmente per paesi terzi. La validazione di un metodo da parte dell’Ecvam implica quindi la sua adozione e diffusione all’interno dei paesi dell’Ocse. Un gruppo ad hoc, composto da rappresentanti dell’industria cosmetica, delle associazioni animaliste e per la tutela del consumatore, del mondo accademico, dell’Ue e dell’Ocse, ha individuato 11 aree tossicologiche cruciali nell’ambito delle quali sviluppare metodi alternativi, una delle quali riguarda la tossicità riproduttiva e dello sviluppo, oggetto della ricerca del progetto Reprotect.
Profumi redditizi
Solo per cosmetici, profumi e articoli da toeletta il mercato interessato è enorme: la vendita al dettaglio è di circa 60 miliardi di euro in Europa occidentale e 190 miliardi nel mondo. Trenta associazioni nazionali di categoria e 23 multinazionali sono riunite nella Colipa, l’associazione europea del settore, che sostiene lo sviluppo dei metodi alternativi. Una delle aziende che più vi ha investito è la Procter&Gamble, secondo produttore mondiale di beni di consumo. Afferma il dottor Lee Bansil della P&G: «I metodi di sperimentazione alternativa sono vantaggiosi anche dal punto di vista dell’impresa. Come scienziati preferiamo ovviamente non fare ricerca sugli animali, ma le alternative sono anche molto più rapide, meno costose e più facilmente riproducibili. Dal momento che lo sviluppo di molti dei nostri prodotti richiede tempi assai lunghi, come accade per i farmaci, qualsiasi cosa possiamo fare per accelerarlo è positiva dal punto di vista dell’impresa». Solo la P&G ha investito 190 milioni di dollari, contribuendo allo sviluppo di oltre 50 metodi alternativi. La sola convalida di un metodo ha un costo approssimativo di circa 250 mila euro e richiede in media tre anni di tempo.
Tecniche sostitutive
Di test alternativi ce ne sono già diversi, che riguardano per esempio la valutazione della fototossicità; sono in via di validazione quelli per l’irritazione oculare o della sensibilizzazione cutanea: alcuni esperimenti attualmente previsti sui conigli, ad esempio, vengono sostituiti da altri su uova di gallina o cornee bovine, mentre in casi differenti si prevedono sistemi più avanzati in silico. Nello studio della tossicità dello sviluppo, esiste l’Est (Embryonic Stem Cell Test) un test in vitro già validato per sostanze embriotossiche (cioè tossiche per lo sviluppo dell’embrione) che prevede l’uso di cellule staminali embrionali di topo per determinare gli effetti avversi di prodotti chimici sulla differenziazione delle cellule muscolari cardiache, e su tessuti neurali e dello scheletro. I risultati ottenuti in vitro vengono poi elaborati mediante modelli matematici, ottenendo una previsione di cosa accade in vivo, classificando infine le sostanze in “debolmente”, “fortemente” e “non embriotossiche”. L’idea di alcuni ricercatori del settore è adattare questo test a cellule staminali embrionali umane: «L’uso di sistemi di test umanizzati sarà molto più predittivo. Non tutte le specie mammifere sono egualmente suscettibili o sensibili all’influenza tossica di un composto chimico». In altre parole, usando direttamente cellule staminali embrionali umane si supera il problema del trasferimento delle informazioni fra specie diverse – cioè il problema di stabilire quanto i risultati dei test sugli animali siano validi anche per l’uomo – e si può verificare il potenziale teratogeno delle sostanze chimiche direttamente sullo sviluppo umano.
Una delle quattro aree di ricerca in cui è diviso il progetto Reprotect si occupa dell’adattamento del test alle cellule staminali embrionali umane, sotto la guida di Horst Spielmann, dello Zebet (Centro per la documentazione e valutazione delle alternative agli esperimenti animali, in Germania). Due altre aree di ricerca sono coordinate da italiani (Giovanna Lazzari dello Spallanzani e Alberto Mantovani dell’Istituto Superiore di Sanità) che non lavorano direttamente sulle cellule staminali embrionali umane.
Il “project manager” dell’intero progetto è Cristian Pellizzer, ricercatore all’Ecvam, che ha conseguito il dottorato di ricerca all’Università di Costanza, nel marzo 2005, con una tesi svolta presso l’Ecvam titolata “Monitoraggio in vitro della tossicità dello sviluppo mediante cellule staminali embrionali di topo e umane”, in cui veniva utilizzata una linea staminale embrionale umana proveniente dagli Usa, fra le prime sviluppate e messe a disposizione per la ricerca. Anche Reprotect prevede l’utilizzo di linee cellulari già esistenti.
Il vero business
Sostituire gli animali con gli embrioni nei test tossicologici: dovrebbe funzionare meglio, a costi minori. Una mostruosità, da qualsiasi punto di vista la si voglia guardare, tranne che da quello economico. Il mercato, infatti, è immenso, e molto più promettente di quello delle annunciatissime, ma purtroppo inesistenti, terapie per malattie degenerative e incurabili. Protocolli terapeutici, infatti, sono stati ricavati solamente dagli studi su cellule staminali adulte, come è noto, mentre da quelle embrionali ancora non si è ricavato nulla.
Le applicazioni tossicologiche, invece, meno pubblicizzate delle immaginarie terapie, sono già a portata di mano. Se ne è accorto da tempo Philippe Busquin, commissario europeo alla Ricerca, che già nel giugno 2004 dichiarava: «L’uso di colture cellulari umane, incluse cellule staminali embrionali, contribuisce significativamente al progresso nei metodi alternativi». Chiaramente il business è stato fiutato anche in Asia: ricercatori inglesi, al ritorno da una missione in Cina, Corea del Sud e Singapore per valutare le opportunità di collaborazione scientifica e commerciale con quei paesi nel settore delle cellule staminali, scrivevano: «Piuttosto che usare cellule staminali per scopi di clonazione terapeutica, le compagnie farmaceutiche le vedono come potenziale chiave per una sorgente illimitata di popolazione di cellule differenziate, ideali per sviluppare modelli di screening di malattie basati su cellule umane».
Nel giugno del 2005, su Science Magazine venivano bene illustrati i contorni della vicenda. “Le cellule staminali embrionali umane possono essere le nuove migliori amiche della tossicologia” annunciava eloquente il titolo di un pezzo, che iniziava così: «No-nostante la loro affascinante reputazione, le cellule staminali embrionali umane hanno ancora molto tempo davanti a sé prima di provare a trattare malattie. Infatti, il beneficio medico più immediato di queste cellule controverse potrebbe meglio essere quello degli studi tossicologici». L’articolista parla dei risultati ottenuti dall’Ecvam sulle cellule staminali di topo, spiegando che si vuole adattare il test alle cellule embrionali umane, ma soprattutto si legge che la compagnia Cellartis «che ha prodotto 30 linee diverse di cellule staminali embrionali, ora sta collaborando con gli scienziati di Ecvam per trasformare queste cellule in cellule muscolari cardiache, un tipo di cellule molto richiesto nella ricerca tossicologica. Geron a Menlo Park, in California, ha già derivato cellule del fegato dalle sue linee staminali. La compagnia sta lavorando con partner per sviluppare saggi e intende vendere le cellule del fegato nel 2006 per studi tossicologici, dichiara David Greenwood, responsabile finanziario della Geron. E proprio il mese scorso James Thompson dell’Università del Wisconsin, Madison, che per primo ha isolato cellule staminali embrionali umane, ha annunciato di costituire, insieme a due colleghi, una compagnia per generare cellule del cuore derivate da staminali embrionali umane, per testare farmaci».
Quindi ci sono già nel mondo laboratori pronti a produrre linee staminali ad hoc per lo scopo. Grazie all’iniziativa del ministro Mussi e al “compromesso” raggiunto con il decisivo contributo dei cattolici del centrosinistra, ricerche su cellule staminali embrionali umane continueranno ad essere finanziate, in Europa, per ricavarne test tossicologici più efficienti, meno costosi, e con un minor uso di animali. Anche con denaro italiano.
Freschi e sani
E’ noto che per la ricerca sulle staminali embrionali umane, molte delle linee cellulari già esistenti non sono adatte, e che comunque quelle disponibili non sono in numero sufficiente a garantire una varietà sufficiente di “campione”. Parlare della limitazione della ricerca alle linee cellulari già esistenti, è quindi abbastanza ipocrita. Un lungo e interessante articolo apparso su Time Magazine dello scorso 30 luglio spiegava in dettaglio le problematiche del settore, senza troppi giri di parole: «Gli scienziati ammettono che andando avanti c’è bisogno di una quantità molto più ampia di embrioni freschi e sani, rispetto a quelli che le cliniche per la fertilità potranno fornire. [.] Oggi ci sono solamente 21 linee cellulari utilizzabili, il che limita la diversità genetica. Sono linee vecchie, così non crescono molto bene, e per le colture in cui sono state fatte crescere sono stati utilizzati metodi datati. Ma soprattutto, i cromosomi nel tempo sono soggetti a sottili cambiamenti, compromettendo l’abilità delle cellule a rimanere “normali”. [.] Uno studio ha stimato che, nella migliore delle ipotesi, circa duecento linee cellulari potrebbero essere derivate dagli embrioni sovrannumerari abbandonati, ottenuti da trattamenti di fecondazione in vitro, che tendono ad essere più deboli di quelli impiantati nelle pazienti. Il fatto che provengano da coppie infertili può significare che non sono tipici, e i processi di congelamento e scongelamento sono pesanti per cellule delicate».
La ricerca nel settore porta inevitabilmente alla richiesta di nuovi embrioni, per nuove linee cellulari staminali, possibilmente create non casualmente ma con alcune caratteristiche precise. Embrioni freschi, sani e su misura. Ma questa richiesta crea ancora problemi, nonostante tutto, nell’opinione pubblica, cattolica e non.
Nel pezzo del Time Magazine si legge che per evitare di distruggere embrioni si potrebbe usare l’approccio noto come «trasferimento nucleare alterato», in cui un gene, indicato con la sigla CDX2, viene rimosso prima della fusione con l’ovocita. «Questo dovrebbe assicurare che l’embrione viva solamente il tempo necessario a produrre cellule staminali, dopo di che morirebbe». La soluzione al problema etico sarebbe quella di creare embrioni con l’esatta data di scadenza, in altre parole i famosi embrioni non impiantabili, quelli tanto auspicati dal governo Prodi.
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