Viaggio da Tokyo al cuore del Giappone. Sul treno super veloce tra cemento e vagoni stipati, alla ricerca della perduta «perfetta semplicità»
Tokyo. Le comitive di impiegati sono la prima attrazione turistica della capitale giapponese. Si incontrano ovunque. A volte ci sono delle ragazze, ma di solito sono gruppi di uomini. Dopo le cinque di pomeriggio, quando gli uffici chiudono, sciamano per le strade, nei vagoni della metropolitana, a giocare nelle sale del Pachinko, cenano nei ristoranti con i separé e, probabilmente, trovano altri piaceri oltre al cibo.
Uomini vestiti in completi neri, camicie bianche che sembrano fatte di cartone da quanto sono rigide, hanno scarpe nere e tristi. Nei vagoni della metro parlano, ridono, entrano ed escono tutti insieme, si siedono o stanno in piedi in fila. Dalle cartelle sempre nere, che completano il loro abbigliamento, escono fogli, telefonini, iPad e lucido per le scarpe. Ho chiesto a uno di loro, seduto accanto a me nella metro: «Lavora anche nel week-end?». Ci ha pensato un bel po’, tanto che pensavo non capisse l’inglese, poi, tutto fiero, mi ha risposto: «Gioco a baseball».
I giardini imperiali sono gremiti di giocatori di baseball, la domenica. Hanno un entusiasmo che li fa sembrare yuppie americani degli anni Ottanta; giocano tutti, anche le scolaresche coi professori. Il baseball è il nuovo sport nazionale nipponico, all’aperto. ll Pachinko, al chiuso. Soli davanti a un biliardino luccicante e colorato, come forsennati mandano avanti e indietro le palline del flipper per vincere qualche caramella o centrino della nonna. Così gli yuppie dimenticano lo spirito di corpo e il lavoro. Il Pachinko è il nirvana del giapponese moderno: qui, complice il rumore assordante delle palline che rimbalzano da un flipper all’altro, il fumo attivo e passivo ai massimi livelli, la confusione e il caos dei colori, si abbandona il mondo esterno. Fino alla prossima alzataccia, quella per ritornare nelle metropolitane che portano in ufficio, tutti insieme in piccole truppe bianche e nere appiccicati ai telefonini.
Le geishe esistono davvero
Diverse sono le pattuglie dei ragazzi truccati e vestiti come nei fumetti, tali e quali ai manga. Si fanno le fotografie nei giardini o lungo le strade posando proprio come in una striscia animata. Nei giardinetti dove il cemento si intercala con una pianticella o un’aiuola, studiano le movenze giuste per tempi lunghissimi, hanno parrucche colorate in testa, giacche da corsaro, buffi copricapo e trucchi pesanti come quelli delle geishe. Odaiba, l’isola artificiale costruita con la spazzatura riciclata nella baia di Tokyo, ha un’atmosfera perfetta per una scenografia da Blade Runner.
Le geishe, a proposito, si dice che esistano ancora. La prova potrebbe essere un piccolo calzolaio nascosto tra mille negozietti commercialissimi per turisti, in una strada anonima di Kyoto. Confeziona zoccoli di legno fatti a mano, per numeri di piedi che solo i giapponesi possono indossare; zoccoli-trampoli che hanno l’interno ammorbidito da paglia intrecciata come i tatami e che costano una follia: solo le vere geishe possono permetterseli. Per fabbricarne un paio ci vuole anche un mese; per poterci camminare il training è sicuramente molto più lungo.
A Kyoto due intraprendenti trampoliere sfoggiavano le scarpette sotto colorati kimono. Saranno loro le famose signore o forse erano solo intrattenitrici di qualche agenzia turistica che insegna a indossare il kimono o a bere il tè?
La domanda è d’obbligo e non denota incapacità di meravigliarsi o snobismo a tutti i costi: il Giappone di oggi ha scoperto l’industria del turismo come un altro settore capace di dare un valido aiuto al ristabilirsi dell’economia nazionale. Dopo dieci anni di recessione ininterrotta, riprendersi da un debito pubblico impressionante, più alto di quello italiano, è impresa che necessita di scovare nuove energie produttive.
Così, la macchina del turismo è organizzata nei minimi particolari e il viandante deve sapersi guardare intorno se ancora vuol vedere qualcosa di vero. L’effetto Disneyland a Kyoto è assicurato. Fa venire voglia di darsela a gambe levate appena arrivati: l’orrore architettonico della nuova stazione centrale, che serve da benvenuto, offre più che un buon motivo. Eppure, diciamolo subito, fuggire sarebbe un errore, l’antica capitale rinchiude ancora molti tesori. Ad esempio sulle colline, dove il silenzio dei giardini e la bellezza della natura circostante, finalmente, riescono a farci incontrare il Giappone sognato prima di partire.
Le due magnifiche residenze “fuori porta” per imperatori cadetti o pensionati – villa Katsura e villa Shugakuin – coi loro giardini costruiti come luoghi di pace e di ozio intellettuale sono ambienti di semplicità essenziale, che si uniscono in un corpo unico con l’esterno riuscendo a creare l’incanto voluto dai progettisti e dai principi. Anche gli scarni arredi all’interno delle stanze sono abbelliti da evanescenti pitture che giocano a fondersi con la natura circostante. Nei pannelli delle porte scorrevoli, negli sportelli degli armadi, scene della campagna si susseguono: una tigre che sta per saltare, rami degli alberi con i primi fiori di ciliegio, leggeri uccellini, appena stilizzati in oro o in linee che sembrano schizzi veloci a matita, si posano e si librano nell’aria da quei rami. E poi cascate, alberelli ricciuti aggrappati spericolatamente a solitarie rocce, omini piccolissimi al lavoro, a passeggio, a pescare.
Sepolti dal cemento
Un artista di Tokyo, con un minuscolo negozio nel sobborgo di Ueno, costruisce casine piccolissime dal cui comignolo esce un fiore più grande delle casette. Mi è sembrato il punto di incontro tra gli antichi giapponesini dei dipinti e la realtà attuale. A Ueno, isola felice nell’agglomerato delle città, i giapponesi riescono a vivere ancora in case unifamiliari, con intorno giardinetti minimi e fioriere. Composizioni simili possono spuntare in luoghi inaspettati: vicino alle metro, all’angolo di immense strade anonime, di fronte all’entrata di enormi garage multipiano.
Bisogna vederli lavorare, i giapponesi. Hanno una forza inimmaginabile, sia nell’anima sia nel corpo. È un popolo con una abnegazione al dovere fuori dal comune. Non si fermano fino all’ultimo straccio di energia fisica e spirituale.
A prima vista e guardandolo dall’esterno, il Giappone odierno è un’enorme delusione. Colpa del caos estetico delle città senza strade né piazze, fatte di ammassi di cose: grattacieli, parcheggi, zone turistiche, magazzini immensi, strade sopraelevate che serpenteggiano sulle nostre teste. Dal finestrino del treno veloce, lo Shinkansen, tra Kyoto, Osaka, Nagano e Tokyo, il cemento si sussegue senza soluzione di continuità. Un panorama claustrofobico come le metropolitane infinite e complicate, unico metodo, soprattutto a Tokyo, per spostarsi da una parte all’altra della città e che costringono visitatori e giapponesi a una vita sotto terra.
Poi, piano piano, la «delicatezza della perfetta semplicità di villa Katsura», come scrive Fosco Maraini in Ore giapponesi, si fa viva anche nel Giappone del mio viaggio. Come quel fiorellino dalle casine dell’artista di Tokyo. I fiori sono le signore che mi inseguono lungo i corridoi della metropolitana perché mi è caduto un foglio del libro che ho sotto braccio o si preoccupano che non mi perda nei mille anfratti di una delle immense stazioni. Il fiorellino è il manager con un perfetto inglese che mi accompagna all’autobus per il monte Fuji e perde un’ora, ma dice che non devo preoccuparmi perché lui ha finito l’orario di lavoro. Un fiore antico è la signora dell’Omnsen, bagni pubblici giapponesi, che a gesti e in giapponese mi insegna a tenere in equilibrio sulla testa un minuscolo asciugamano che mi è stato consegnato all’entrata e di cui non so che fare.
Loro si inchinano, io mi inchino e poi il problema è risolto: arrivo al treno, ritrovo gli occhiali, il libro, l’asciugamano però mi cade, non dovevo inchinarmi. Potrei raccontare storie simili per quasi ognuno dei miei giorni giapponesi. Non so se tutti gli abitanti del Sol Levante sono così gentili o si comportano così solo per spirito di corpo, per dimostrare la grandezza del Giappone. Sono contenta di avere nella mia borsa un grosso volume di Maraini sul Giappone, non c’è guida migliore, soprattutto oggi, per andare a vagabondare alla scoperta del Sol Levante e trovarne tutte le bellezze.
L’antico sopravvissuto
Nikko diventa la chiave di volta per amare il Giappone. I suoi templi sono pomposi e fanno sfoggio del potere degli shogun, ma sono immersi in una natura bellissima e incontaminata. I giapponesi a causa dei terremoti non costruiscono sulle colline, e la cittadina di Nikko è rimasta di poche case a valle e poi nient’altro. Per la prima volta trovo finalmente un Giappone antico: ad accogliermi in una mattina piovigginosa, la sfilata dei Buddha con le papale rosse e i grembiulini. Mi sembra di incontrare gli omini dei dipinti giapponesi piccoli e operosi. Anche il paesaggio ricorda i quadri con scene in sequenza: un ponte su un fiume scosceso, alberi spericolati in equilibrio sulle rocce, uccellini ovunque a rallegrare la natura con canti e colori vivaci. È questo il Giappone ridente, operoso e campestre dei grandi pannelli seicenteschi a sfondo dorato.
Capisco finalmente perché Fosco Maraini, le poche e fortunate volte che l’ho incontrato, finiva sempre a parlare della giovinezza della natura giapponese, della sua rigogliosità, dei bellissimi giardini nipponici che non volevano tradire il disegno della natura. E quando torno a Tokyo per ripartire verso l’Italia, la metropoli senza cielo non mi pare più da buttar via.
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