Verrà il virus e avrà i tuoi occhi
Articolo tratto dal numero di luglio 2020 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.
Come fosse incominciato e da dove venisse nessuno lo sa. A ben guardare nemmeno si sapeva precisamente quando fosse incominciato.
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Una serie di voci rimbalzate in modo disordinato e vago raccontavano di uno sguardo strano, balenato sulla via principale di Zeravshan in Uzbekistan e che, da quello sguardo, un fremito era subito intercorso tra la folla. Forse tumulti, forse movimenti convulsi a fuggire con morti e feriti. Era il giorno della festa dell’Ashura e i fedeli si erano riversati in strada in attesa di rompere il digiuno.
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Come si appurò poi erano voci senza fondamento. Anche se, nel frattempo, altre voci venivano rimbalzando or da una città, ora da un’altra. Or da un continente, or da quell’altro. Non si prestò allora molta attenzione: queste strane voci arrivavano da paesi velati dalla nebbia della lontananza, mondi sperduti, piegati sotto la coltre di superstizioni e miti nebulosi, con nessuna certezza e certificazione del sapere.
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La sufficienza del mondo superiore li avvolse e li tenne lontani. Ma un fatto spazzò via improvvisamente tutte le superiorità morali e scientifiche su cui riposava tranquilla la sicurezza del mondo superiore. Come raccontò poi il Guardian, Sir John Coldrake – il paziente zero – quella mattina era giunto di buon’ora, come ogni mattina con turno di seduta del resto, alla camera dei lord di Londra. Quando, improvvisamente, alzando gli occhi dal mucchio di carte che gli inservienti avevano impilato sui banchi, scorse sir Hendrix guardarlo fisso e, gli apparve subito chiaro, guardarlo con avversione, forse anche odio. Pronto, così gli sembrava, a balzargli addosso. E gli altri? Anche gli altri, sì anche gli altri. Eccoli lì, con il loro carico d’odio. Così, tutti erano pronti a scatenarglisi addosso e a lui non restava che la difesa. Brandì il tagliacarte, menando fendenti a destra e a manca. Da quel giorno scontri e colluttazioni furiose vennero segnalate in ogni dove. Londra, Houston, Parigi, Torino, Bonn, San Diego, Filadelfia, Rostov. Lì, proprio lì, nelle capitali e nelle città cuore e centro pulsante della civiltà superiore. Lì, proprio lì, nel cuore delle tranquille certezze positivistiche, dove ogni irrazionalità era bandita, dove la salute era un diritto e la sicurezza un dovere. L’attacco a sorpresa sconcertò e impaurì, quasi gettandoli nel panico, autorità e organi di governo mondiale. I focolai di violenza dilagavano: ognuno accusava l’altro di averlo guardato con odio, pronto a fargli violenza. Ognuno incominciò a temere e diffidare di chi, per un motivo o per l’altro, gli era prossimo. Il marito dubitò della moglie, il padre del figlio, i colleghi di lavoro tra di loro, del passante casuale, dell’amante casuale, l’ad del trust internazionale, il vicino di pub o di negozio sotto casa, la cassiera al supermercato, il broker assicurativo, il trainer e la fidanzata. Bastava uno sguardo ed era panico, paura e violenza incontrollata. Incominciò la triste conta quotidiana delle vittime.
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I primi risultati dei test su vittime e assalitori suonarono paradossali e quasi incredibili: uno strano virus, mai visto prima, si era insinuato nello sguardo. Gli scienziati si riunirono, si divisero, si allearono, litigarono. Le multinazionali della ricerca si slanciarono in una corsa che faceva intravvedere la possibilità di nuovi, incredibili, guadagni. I governi si riunirono in sede permanente. La vita si fermò. Sospetto, odio, furore. Lampi di furia incontrollata, strappi improvvisi laceravano l’esistenza. Lampi e furie pagati al prezzo di innumerevoli vite, e del sacrificio dei tanti che pur di soccorrere gli infetti non esitavano a poter essere vittime degli attacchi d’odio.
L’esito di mesi e mesi di studi e di tanta forsennata ricerca condotta dai più famosi epidemiologi fu, se possibile, ancora più sconcertante: non uno strano virus si era insinuato nello sguardo, ma lo stesso sguardo, esso stesso, era il virus. E il guardare era la modalità del suo diffondersi.
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I più autorevoli scienziati della salute pubblica impegnarono tutte le loro energie: perché lo sguardo? Perché proprio lo sguardo? Qualcuno sentenziò autorevolmente che il motivo doveva ricercarsi nel fatto che lo sguardo «era lo specchio dell’anima». Qualche altro collega ribatté altrettanto autorevolmente che non tutti gli sguardi erano recettori e suscitatori d’odio, bensì solo gli sguardi che andavano «dritti in fondo al cuore». Qualcun altro, più banalmente, si limitò a parlare di «sguardi e occhiate assassine». Qualcun altro ancora di sguardi che «scavavano dentro» liberando la scintilla d’odio che covava in tutti e ciascuno. Insomma, se non fosse per l’involontaria ironia, si poteva dire che, gli indagatori dello sguardo e del guardare, brancolavano nel buio.
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I comitati di salvezza nazionale, organizzati e coordinati dal centro mondiale della salute pubblica, stesero protocolli di comportamento. Un sistema di norme, chiamato «oscuramento sociale», prese il sopravvento e la precedenza su ogni altra regola del buon vivere civile allora in uso. A ogni cittadino fu imposto di non uscire di casa se non costretto e, se costretto, di camminare con gli occhi rigorosamente bassi. Reti nazionali di centri di formazione con obbligo di frequenza, soprattutto per i più giovani, moltiplicarono i corsi per insegnare a guardare di traverso. Anche le centrali di comunicazione si posero al servizio del bene pubblico: via etere e online fu insegnata gratuitamente la tecnica dello sguardo denominato, un po’ volgarmente, del pesce lesso: ossia lo sguardo di chi, pur guardando, nulla vede.
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Alle fabbriche fu imposto di impiegare i propri lavoratori su nuove macchine rigorosamente non più alte di 30 centimetri. E se proprio non fosse stato possibile i sindacati chiesero agli imprenditori di dotare i dipendenti di altissimi sgabelli e trampoli che permettessero loro di lavorare abbassando gli occhi. Scomparve l’illuminazione pubblica serale. Gallerie e miniere furono prese d’assalto dal jet set internazionale in cerca di vacanze alternative. Furono sviluppate app (Idon’twatch) che segnalavano la presenza di possibili “guardatori”. Le griffe di occhiali più famose al mondo si riunirono in consorzio per produrre uno speciale occhiale che con un sistema di specchi e rifrazioni riusciva a raggiungere e a mostrare le persone da tergo. Recitavano le campagne pubblicitarie: «Un nuovo mondo, una nuova prospettiva». Per la popolazione più povera venne ripristinato l’antico sistema che tanto egregiamente aveva funzionato nel governare asini e cavalli. Venne rivalutato il paraocchi e, per venire incontro alle esigenze della popolazione, milioni di paraocchi furono distribuiti gratuitamente. Ci fu, a dire il vero, chi – un oscuro professore di una piccola università – in un passaggio di un articolo sempre sul Guardian, provò a sostenere che esisteva una strada che andava dritta dagli occhi al cuore senza passare per l’intelletto, e che il problema non stava tanto nello sguardo quanto in cosa si cercava e desiderava, guardando. Ma fu una flebile voce, subito sommersa dalle critiche perché distoglieva la gente dall’imperativo dell’oscuramento sociale, con il rischio di minare la salute pubblica. Al contrario, grandi sforzi furono impiegati dal centro mondiale della sanità per promuovere e incoraggiare l’amore omoerotico, definito «la posizione più naturale e il comportamento sessuale più consono alla difesa della sanità collettiva».
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Guardare e usare delle cose da dietro venne elogiato come un modo nuovo («il vero modo») di vivere la realtà. Con lungimirante tolleranza, ai pochi che recalcitravano fu concesso di fare all’amore nel modo tradizionale, purché fosse rigorosamente a luci spente. E agli innamorati di qualunque tendenza e costume sessuale (dopo rigorose e lunghe ricerche per escludere che l’amore in sé potesse essere pericoloso – troppi i poeti che lo avevano descritto come un modo di “guardare” all’altro) fu concesso di esprimere affetto intrecciando le dita e camminando mano nella mano. Paratie nere, variamente stilizzate, entrarono a campeggiare in numerose bandiere nazionali a indicare uno stile di vita, un impegno morale, un programma esistenziale. Rimaneva da risolvere lo spinoso problema della presenza delle religioni, soprattutto monoteiste. Alla religione cattolica furono imposte restrizioni speciali. Furono rintracciati testi sospetti («alzo gli occhi intorno e guardo: da dove mi verrà l’aiuto?») e che sembravano fatti apposta per eccitare alla rivolta e alla sovversione («innalzate nei cieli lo sguardo, la salvezza di Dio è vicina»). Non potendo escludere in via sperimentale un possibile nesso tra sguardo e anima, non solo si impose ai fedeli di camminare a sguardi abbassati, ma anche di rinunciare a letture sconvenienti di cui, per l’occasione, fu approntato un lungo elenco. Fu chiesto di rinunciare, in questo caso in via puramente cautelativa, anche alla lettura del Vangelo. Poteva forse essere permessa la lettura di interi capitoli che raccontavano, esaltandoli, cosiddetti miracoli in cui veniva ritornata la vista ai ciechi? Non fu difficile intendersi con le autorità ecclesiastiche. Come si seppe poi, già nemmeno in tanti di loro albergava la certezza che si desse una tale realtà chiamata anima. Era una credenza, una credenza facile e per di più innocua, tollerata, perché negarla se non recava fastidio alcuno? Ma le disquisizioni più dotte si esercitarono su cosa si dovesse intendere per il bene dell’uomo. Sinodi e concistori si esercitarono a lungo. Che cosa dunque si intendeva con “bene dell’uomo”? Intanto in via preliminare si assunse in modo unanime che sarebbe stato inutile parlare di bene dell’uomo in assenza dell’uomo; ossia in presenza di un virus che, se lasciato libero e, per così dire, incoraggiato, avrebbe portato all’estinzione di ogni uomo. Ne discese che con bene dell’uomo dovesse intendersi primariamente la difesa della salute pubblica. Con il che, e per il bene degli stessi fedeli, ma non solo, vescovi e cardinali accondiscesero alle richieste della pubblica autorità.
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Per mostrare anzi la loro buona volontà e il desiderio di servire il bene pubblico, arrivarono anche a proibire messe e processioni. Non era nascosto a nessuno che durante la messa il corpo e il sangue di Cristo venivano solennemente alzati per offrirsi allo sguardo di tutti. Non era uso poi – fino ad almeno pochi decenni prima – chiosò un teologo tedesco in un articolo che ebbe grande successo, usare l’espressione “sentire messa”? Qualcuno aveva mai usato l’espressione “vedere messa”? Perché dunque ostinarsi a partecipare per vedere? E non era nascosto a nessuno che scopo e senso delle processioni era di fissare tutti insieme, come un corpo solo e un’anima sola, lo sguardo sull’Altissimo che camminava per le strade del mondo. Perché provocare e aizzare il possibile, giusto, risentimento popolare quando tanti cadevano sotto i colpi del guardare? Forte della buona volontà dimostrata il consesso universale delle Chiese cristiane spinse il suo ardire fino a proporre ai rappresentanti del governo mondiale di rivalutare la figura di Gesù. Se non tutta – offrirono – almeno di quella parte che aveva sentenziato «beati quelli che senza aver visto crederanno».
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Più difficile, per non dire impossibile, fu il dialogo con l’islam. Non si dovette attendere molto per capire che il destino aveva messo loro nelle mani una nuova terribile arma. Il grande iman sunnita colse la palla al balzo e lanciò una fawta (Allahu akbar) in cui imponeva di non più usare armi e coltelli ma di colpire i cani infedeli guardandoli dritti negli occhi. Il grande iman sciita, per non essere scavalcato e accusato di tiepidezza, impose alle fedeli musulmane residenti nei paesi dell’occidente (Allahu akbar) di capovolgere usi e costumi vecchi di secoli: dovevano rinunciare al burka e uscire nude con solo gli occhi velati. Sarebbe stato un attimo alzare la veletta e colpire dopo aver attirato su di sé tanti sguardi.
La gente viveva dunque ormai rassegnata. Conosceva i propri piedi, li trascinava e, trascinandoli, supponeva che ci fosse qualcos’altro e qualcun altro. Non vedeva. Sentiva. Sentiva e intuiva. Intuiva e immaginava: l’andare della gente, le espressioni della bocca, degli occhi, il sorriso amaro o beffardo o cinico: chissà se fors’anche gioioso?
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Qualcuno ebbe a raccontare che un giovane lavorando in un campo e zappando con gli occhi rigorosamente a terra, ebbe a discoprire per caso un’antica iscrizione: «Tu guardi le stelle, stella mia, ed io vorrei essere il cielo per guardare te con mille occhi». Si dice anche che il giovane, chissà perché, invece di denunciare il fatto alla pubblica autorità, ricoprì la scritta e se ne andò solo, seguito dal suo segreto.
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Poi, girò, da qualche parte, una voce. Non si sa di dove fosse arrivata né come. Nemmeno si sa quando fosse cominciata. Ma si dice che in una qualche parte del mondo, forse Medio Oriente, forse lungo le pianure dell’Ural, o nell’ultima Thule, un bimbo, un anno e poco più mentre giocava a terra, sul pavimento, con pochi balocchi, fu sorpreso da un fruscio di vesti. Alzò lo sguardo, fissò gli occhi in quelli della madre e chiamò: «Mamma!?».
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Si dice anche che gruppi di vecchi credenti fossero soliti passarsi tra loro quella storia. Ma si dice anche, è questo è paradossale, che fossero costretti a raccontarsela quasi in silenzio, in luoghi solitari e bui, lontani dagli occhi di tutti. Alcuni di loro, i più temerari, sotto la fodera dei vestiti, recavano, cucita, una scritta: «Venite e vedete».
Foto Ansa
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