La verità si è fatta amicizia per salvare la libertà
«Non è vero che abbiamo bisogno dell’assenza, della solitudine, dell’eterna attesa»: le parole con le quali, in una sontuosa villa di campagna bavarese, il protagonista del film L’anno scorso a Marienbad (1961) riesce a risvegliare in una donna il ricordo del loro precedente incontro descrivono qualcosa in più rispetto alla ricerca di una vita autentica. O meglio: la ricerca del significato rimane una maschera che la vita indossa per continuare a trascinarsi lentamente nella dimensione della chiacchiera lungo le stanze e i giardini della villa, fin quando una presenza diversa non si rivela, nel suo vero volto, alla vita. E allora, la giovane donna pensa che valga la pena seguire quell’uomo, anche a costo di privarsi della compagnia di tutti gli altri e di restar sola con lui, perché egli è non la risposta a una domanda di significato, ma la risposta senza della quale, in lei, la domanda non sarebbe sorta.
Esistono, quindi, delle risposte che non presuppongono, ma che fanno essere le domande e che oggi vanno poco di moda. Stando almeno a quanto ha detto Ernesto Galli della Loggia mercoledì 22 aprile a Milano, durante il dialogo (promosso dalla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale) con l’arcivescovo della Diocesi ambrosiana Angelo Scola, a proposito della attuale vittoria del libero arbitrio assoluto: domande senza risposta.
È difficile, in altre parole, negare che la secolarizzazione, intesa come allontanamento della vita dalla fede cristiana, abbia raggiunto il proprio obiettivo nella creazione di un uomo che si ritiene artefice del proprio destino: oltre alle domande, sopravvivono certamente ancora delle risposte, ma non si tratta di quelle che fanno essere le domande, ma delle risposte “pronte”, che arrivano soltanto dopo che la ragione ha avuto campo libero e partita vinta. E, se è vero che assistiamo a un ritorno del sacro, è anche vero che il suo carattere “selvaggio” forse è dovuto proprio al suo sopravvenire, in un certo senso, quando la ragione ha già fatto i suoi giochi infischiandosene della grazia. Diciamocelo senza mezzi termini: la questione è non poco misteriosa (cioè senza garanzie), dal momento che la ragione, anche quando diventa cuore (con le relative pascaliane ragioni che la ragione non conosce), costituisce al massimo una condizione necessaria, non certo sufficiente, per accogliere la grazia. “Senso religioso” è un altro modo per dire “cuore” e non coincide con la fede cristiana.
E ci si può smarrire non solo se si segue la ragione chiusa, ma anche se si segue il cuore: ci vuol ben altro che grandi ideali. Attribuire alla loro crisi il disastro antropologico del nostro tempo, sarebbe non solo troppo comodo, ma anche poco rispondente alla realtà: gli ideali, infatti, non solo non sono scomparsi, ma continuano ad essere il carburante di una libertà di scelta assoluta, disposta a imbarcare persino la verità, perché, per poter scegliere qualsiasi cosa, l’uomo ha bisogno di raccontarsi che questo qualcosa è vero (e bello). Che poi sia vero per davvero o solo per finta, è un altro discorso, sicuramente meno importante rispetto al dovere che l’arbitrio assoluto (si chiama anche relativismo) si autoimpone di decidere lui cosa sia vero.
Ciò a cui il relativismo tiene maggiormente è non tanto la critica alla verità, quanto la possibilità di decidere autonomamente cosa essa è; e questo è il motivo per cui credo che la parola più importante del manifesto, proposto da Tempi per i suoi vent’anni, sia “amicizia”: se infatti la dittatura relativistica della libertà di scelta assoluta è il male del nostro tempo proprio in quanto si alimenta di una radicale solitudine dell’uomo che concepisce se stesso in modo sempre più autoreferenziale, difficilmente lo si metterà in crisi attraverso una ragione e una verità che non diventino amicizia.
La battaglia anti-relativistica per salvare la possibilità di conoscere la verità dei contenuti della libertà di scelta si combatte quindi sul terreno della ricerca di chi o cosa (a patto che esista) è in grado di comunicarli alla libertà; e la posta in gioco riguarda non solo la possibilità per l’uomo di uscire dalla solitudine, ma anche la sopravvivenza della stessa verità: qualsiasi contenuto, infatti, per funzionare da fine delle scelte, deve avere consistenza autonoma rispetto a qualsiasi facoltà umana e, di conseguenza, può essere conosciuto non all’interno dei confini della soggettività, ma soltanto all’interno di un rapporto.
[pubblicita_articolo]Il grido di aiuto che sale dalla nostra società nasce dalla sempre più diffusa incapacità dell’uomo di compiere scelte, ma la radice di tale difficoltà deve essere rintracciata nel fatto che è scomparso, col tramonto dell’amicizia, l’ambito all’interno del quale venivano reperiti i criteri per scegliere, restando, come surrogato, una sorta di delirio di onnipotenza del soggetto che pretende di fabbricarseli da sé: il risultato è un’indeterminatezza dei fini, nel magma della quale il “tu puoi” si trasforma in un “tu devi” e il piacere diventa dovere e risparmia dall’autodistruzione solo chi è ancora in grado di ereditare (alla luce del sole o sotto banco) dalla tradizione l’antico concetto di virtù intesa come amore verso un bene che non ci diamo noi.
Questo è il motivo per cui il filosofo scozzese Alsadair MacIntyre sostiene, almeno a partire dal 1981 (data di pubblicazione del suo Dopo la virtù), che il fine, se non viene narrato, resta o sconosciuto (libertà di scelta senza verità) o astratto (verità senza libertà di scelta). L’unico modo per aiutare un mondo che, avendo dimenticato la possibilità di narrare storie, ha dimenticato il fine è quindi non certo difendere qualcosa che non c’è più, ma ricostituire ambiti di socialità all’interno dei quali poter narrare, ridando vita a ciò che, come scrive MacIntyre, era stato creato per la prima volta all’inizio del cristianesimo e che potrà risorgere attraverso «un altro san Benedetto».
«Il Verbo si è fatto carne» significa che la verità si è fatta amicizia per salvare la libertà di scelta. E qui bisogna sottolineare che il fanatismo ideologico (verità senza libertà), lungi dall’essere contrario al relativismo (libertà senza verità), ne condivide la radice: la mancanza di amicizia.
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