
Vanity Fair non è né femminile né maschile (però inciampa sugli omosessuali)
Vanity Fair letto da Antonio Gurrado
Numero 5 – 6 febbraio 2013
Direttore: Luca Dini
Titolo: Daniel Day-Lewis il più bravo di tutti
Tipologia: Magazine
Periodicità: Settimanale
Prezzo: € 2
Pagine: 160
Pubblicità: 29%
Costo di ogni pagina: 1,25 centesimi
Io, di solito, delle interviste leggo solo le risposte; ma per Concita De Gregorio faccio volentieri un’eccezione e leggo solo le domande: “Per dire?” “E questo ha fatto scattare la rabbia?” “Quindi non si candiderebbe?” “Per esempio?”. Mi spiace per lei ma Vanity Fair è un settimanale monstre, centosessanta pagine da leggere da mercoledì a martedì, solo un quarto delle quali dedicato a mode e belletti; bisogna pertanto fare delle scelte drastiche e alla prima sfogliata decidere a priori su cosa soffermarsi e cosa sorvolare. D’altra parte lo sa anche la redazione che a ognuno dei principali articoli appone il “tempo di lettura previsto”: si va dai 5 minuti sui chili in più di Quentin Tarantino ai 14, non uno di più non uno di meno, sulla guerra in Mali.
Restano ciò nondimeno dei misteri: com’è che due pagine di intervista a Concita De Gregorio rubano 7 minuti esattamente come una pagina di intervista a Fabio Volo, mentre per due pagine di intervista a (rispettivamente) Alessandra Martines e Arnold Schwarzenegger ci vogliono 8 minuti ciascuno? Soprattutto, perché il tempo di lettura viene illustrato in coda all’articolo, quindi sovente all’ultima pagina, e non in cima dove uno si aspetterebbe di ritrovarlo se deve organizzarsi? E ancora: perché non è previsto nessun tempo di lettura per i corsivi d’opinione che insaporiscono l’inizio e la fine del rotocalco?
Una soluzione potrebbe essere che questi corsivi, queste opinioni, sono in molti casi le uniche cose che si leggono davvero, sempre, tutte le settimane incondizionatamente senza porsi problemi di tempo. Spieghiamoci: nonostante le apparenze Vanity Fair è un periodico né femminile né maschile; è metrosexual. Il suo obiettivo è essere aggiornato, trendy, con un costante riferimento a un mondo esterno alla stampa benché virtuale (articoli sulle serie tv, sulla dipendenza da ruzzle, sui tradimenti via facebook) che è grossomodo il mondo di riferimento di chi ha un lavoro d’ufficio e cerca motivi d’evasione mentre sta piantato davanti al computer tutto il santo giorno; non mancano strizzate d’occhio al perbenismo modernista quale ad esempio il parallelo fra l’emancipazione degli schiavi, la fine della discriminazione dei negri e il matrimonio fra omosessuali (certo, come no, io ogni giorno mi trovo a dover farmi largo fra omosessuali incatenati ai quali è proibito di sedersi in autobus). Uno legge Vanity Fair per sentirsi moderno con leggerezza, e l’adamantina coerenza con la quale il giornale persegue questo scopo editoriale è uno dei suoi principali pregi, che riluce perfino nella grafica stuzzicante e gioiosa. Un caso eclatante è l’inchiestina sulla frangetta di Michelle Obama che, passando da Jane Fonda a Bettie Page, viene fatta risalire al 30 a.C., il tempo di Cleopatra.
La sfilza di opinioni che incornicia ogni numero è finalizzata a questo: non si spiega altrimenti la profusione di Gad Lerner, Enrichi Mentana, Darie Bignardi, Barbare Palombelli e Pini Corrias. Il loro compito è di dare quel tono di amichevolezza snob col quale condire i fatti della settimana quando si fa la fila alla macchinetta per il caffè automatico. Dire “Su Vanity ho letto” o “Su Vanity ho visto” fa fare bella figura e piazza una spanna in su rispetto a chi è lì ad annaspare online dietro l’ultimo gossip su Balotelli e Belen (non insieme; non ancora). Perfino l’oroscopo ci piglia, visto che per il Sagittario recita che “se vi facessero l’autovelox agli zebedei vi ritirerebbero la patente all’istante”, e ha ragione, ve lo dico io. È un rotocalco per chi sta in ufficio ma, diamine, è rivolto ai secchioni, a quelli che prima o poi pretendono la promozione e non solo lo stipendio.
In coda, due dettagli. La sallustiana brevitas da perseguire a ogni costo è controproducente quando spara a salve. Vi trascrivo l’anagramma di Fabio Volo a opera di Vittoria Haziel: “Fo… Oblio? Va!”. Chi me lo spiega? Oppure il pensierino di Vivian Lamarque: “Tempi meno di mari e più di monti: Monti Mario, Monti(e) dei Paschi… tempi arcani, sibillini, come i Monti sibillini”. Spero che collabori gratis. In coda invece c’è la rubrica delle lettere a Mina. Scrive una: “Ho 26 anni e un anno fa ho chiuso una relazione che durava da 6 con un ragazzo bipolare”. Tesoro caro, se la prima cosa che t’è venuta in mente chiusa la tua storia è stata di confidarti con Mina, anche tu non devi stare proprio una bellezza. Le scrive invece un’altra: “Ho 14 anni e sono in ansia per il futuro…” Anche, noi, figliola, anche noi per il tuo.
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