Il dialogo impossibile tra Van Gogh e Vermeer. Quando la pittura è neccessità

Di Mariapia Bruno
01 Settembre 2013
L'arte come mezzo di sussistenza, il bisogno di usarla per inseguire una quiete impossibile o cristallizzare un piccolo mondo domestico

Il cielo è limpido e le acque gelide dei canali riflettono, sulla loro superficie trasparente, alberi e case dell’Olanda del pieno Seicento, mentre un timido sole invade l’interno dei piani più alti di una casa piena di bambini sull’Oude Langendijck, di fronte alla Chiesa Nuova di Delft, rifugio protetto di un piccolo mondo che volge all’eterno. Marito e padre ancor prima che maestro, Johannes Vermeer (1632-1675) prepara tele e colori, invitando le sue “juffertjes”, ovvero le piccole donzelle che di volta in volta gli fanno da modelle (la moglie Catharina, la domestica o la figlia del suo principale collezionista, Margarita) ad assumere, di fronte al suo occhio attento, pose straordinariamente naturali, che nobilitano l’intimità di quei gesti quotidiani che vengono cristallizzati per sempre, in un attimo che si riflette all’infinito. C’è silenzio, quella assenza di rumore tanto amata dal pittore che cerca, con tutte le sue forze, creative e spirituali, di allontanarsi dalla confusione, creando situazioni dove non esistono suoni discordanti, dove non si odono né pianti, né grida, dove il fiotto del latte scivola silenzioso dalla brocca in terracotta (La lattaia 1568-1660) e i gesti della ricamatrice (La merlettaia 1669-1670) non raccontano null’altro se non le sue virtù. Un intero mondo declinato al femminile dove gli unici due uomini protagonisti sono Il geografo (1668-1669) e L’astronomo, mentre tutte le altre presenze maschili sono soltanto ospiti di passaggio, che non abitano regolarmente quei luoghi di estrema quiete, ma arrivano di tanto in tanto, corteggiano, palpeggiano (La Mezzana 1656) ascoltano e osservano – come noi – in piena contemplazione.

Lontano di ben due secoli, sembra di stare in un altro mondo quando si è in compagnia di Vincent van Gogh (1853 -1890). Il sud afoso della Francia, dove vive nel momento di maggiore desiderio creativo quest’altro outsider dell’arte olandese, si respira – giallo e sabbioso – in molte sue composizioni che, come da copione, riflettono sempre di più il dramma di una vita tormentata dove la quiete, tanto desiderata, fa fatica a farsi spazio persino sui margini delle tele. Ma cosa hanno in comune, oltre alla stessa nazionalità, questi due artisti apparentemente agli antipodi? Se si scava bene nelle loro vite ci si rende conto che sono accomunati, innanzitutto, da quella lungimiranza e quell’impegno che – nate più da una necessità di sopravvivenza che da una “chiamata” verso il culto della pittura – li ha resi unici nel loro genere. Sì, perché era proprio il bisogno di tirare avanti e di trovare allo stesso tempo un proprio posto nel mondo lo stimolo che ha spinto entrambi a cimentarsi con pennelli e sfumature, a fare proprio quel meccanismo di trasposizione della realtà che ha il potere di renderla non solo eterna, ma anche mutevole, diversa, estrema.

Sia Vermeer, i cui dipinti secondo lo storico olandese Huizinga soddisfacevano «l’intensità con cui gli olandesi godono di forme e oggetti (…), la loro incrollabile fede nella realtà concreta e nell’importanza delle cose terrene, una fede che (…) era la diretta conseguenza del profondo amore per la vita e dell’interesse per il proprio ambiente», sia Van Gogh rappresentano non quello che accade o è accaduto davanti ai loro occhi – come in un dipinto storico o in un ritratto nobiliare che ricorda antiche glorie –, ma una realtà diversa, desiderata, che per il primo si traduce nella dissimulazione, nel mistero, per il secondo nello sfogo, nella richiesta di aiuto. Se il maestro di Delft si abbandona ai sogni ad occhi aperti, dove il microcosmo dipinto è abbellito e depurato dagli affanni dell’esistenza, Van Gogh trasferisce sulla tela il suo tormento attraverso le pennellate aggressive, le linee dritte della tristezza, gli accostamenti cromatici forti e anticonvenzionali. Il grido di aiuto è sempre presente, tranne in poche eccezioni, dove è quasi assopito, come ne La stanza di Vincent ad Arles (1888), opera in cui l’artista crea una sorta di isola felice, cantando un ideale domestico di quiete, come negli interni senza tempo di Vermeer, dove i pochi oggetti personali – i quadri, la coperta rossa, la brocca sul tavolo e una bottiglia in bilico quasi come la caraffa ne La Coquette del suo predecessore – convivono in ordine e armonia, chissà per quanto poco tempo ancora. C’è anche un altro dipinto che svela l’influsso della pittura fiamminga del Seicento su Van Gogh: il Caffè di notte, Place Lamartine, Arles (1888). Qui, come il pittore stesso racconta in una lettera al fratello Theo, sono rappresentate «le tremende passioni dell’umanità», evidenziate dai rossi e dai verdi stridenti, che suggeriscono «un temperamento ardente», mentre l’impostazione del quadro, con le due porte che si aprono sullo sfondo e lo specchio sulla destra che riflette parzialmente la sala, suggerisce il moltiplicarsi degli spazi che possiamo gustare, ad esempio, ne La lettera d’amore (1669-70) e ne La giovane donna assopita (1657 ca.) di Vermeer, dove porte socchiuse e specchi lasciano intravedere delle stanze a noi non completamente accessibili, le stanze segrete del cuore.

E se Vincent, come uno dei suoi Salici al tramonto (1888), ci svela quanto desideri portare verso l’alto le sue mani, come quegli stopposi rami, alla ricerca di una sorta di abbraccio che lo faccia sentire per una volta “dentro” questo mondo freddo e distante, Johannes si ritira e si isola dentro i suoi “casteeltjes”, i piccoli castelli, e ci osserva da lontano, facendo schiudere le umide labbra alle sue muse, che sembrano dirci che niente, nella vita, è come appare.

Chissà cosa si direbbero se, per qualche strano scherzo temporale, si potessero incontrare in un caffè tra le stradine dell’Aia; parlerebbero dei loro mondi costruiti in una soffitta, delle persone che hanno amato, di quelle che hanno reso immortali, o parlerebbero di quanto sono stati incompresi e di come l’arte li abbia salvati dalla malattia del mondo? Se potessimo tornare indietro nel tempo a trovarli, facendo un salto in quelle epoche ormai tramontate, come Gil nel film di Woody Allen Midnight in Paris, che dagli anni duemila vive magicamente un ritorno nella Ville Lumière degli anni Venti conoscendo gli scrittori da lui tanto amati, sentiremmo anche noi il desiderio di voler restare in una sorta di fantastica età dell’oro, per poi scoprire che in realtà lo è soltanto nella nostra immaginazione e non lo è stata per chi l’ha davvero vissuta? Perché in fondo siamo tutti sormontati da quello stesso cielo colmo di paure, scossi da quello stesso vento della malinconia, bagnati da quella stessa pioggia che innaffia l’ambizione, coperti da quelle stesse nuvole che raffreddano le nostre sicurezze, scaldati da quello stesso sole che ci regala un raggio di speranza. Magari in un altro mondo sospeso Johannes e Vincent riderebbero di noi, che ancora oggi, quando attraversiamo i vicoli dove hanno passeggiato, quando ci fermiamo davanti alle loro tele, quando ci chiediamo se abbiano realmente amato le donne da loro rese immortali, li facciamo rivivere e li ringraziamo per quell’emozione che ogni volta ci regalano. n

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