
Van de Sfroos contrabbandiere popolare
E’ un caso strano. Si può dire che rappresenta tutto ciò che non piace al bel mondo dei salotti radical chic. Racconta storie di paese, piene di strani personaggi di paese, canta i loro drammi, le loro felicità, i loro amori, la loro terra, le loro tradizioni. In una parola, canta le storie di un popolo, il suo, che però essendo di carne e ossa porta con sé quel qualcosa di vero che c’è in ogni popolo. E per di più lo fa in dialetto, in quel dialetto “laghee” proprio delle sponde di quel ramo del lago di Como che si inerpica tra valli che da un lato confinano con la Valtellina e dall’altro con la Svizzera. In qualche modo incarna l’esatto contrario del cantante impegnato e sofferente. Eppure Davide Van De Sfroos piace. Piace alla gente che non piace: gente che sembra uscita dalle sue stesse canzoni e che nelle storie di Van De Sfroos (che non è un cognome olandese come scritto da qualcuno: in dialetto significa “vanno di contrabbando”) ha riscoperto qualche brandello della propria identità e delle proprie tradizioni. Poco chic, direbbe qualcuno. Per citare il suo ultimo lp (“E semm partii”) il cantastorie comasco è proprio partito dalle sponde del suo lago per diventare un autentico fenomeno nazionale. Dopo aver fatto cantare e ballare tutti i paesi del comasco, della Valtellina e del Varesotto, negli ultimi anni ha decisamente superato i confini del suo dialetto riempiendo piazze e palazzetti anche in centro Italia e perfino nel Sud (ad agosto farà una tournée di un mese in Puglia). E spinto dal successo successo discografico ora il fenomeno “Van De Sfroos” comincia a far gola anche alla Tv. Domenica scorsa, a Menaggio, nel cuore del suo lago di Como dove ogni anno si ritrovano i suoi coloratissimi fan per una sorta di sagra paesana che coinvolge giovani e vecchi, rockettari e famiglie con bambini, c’era anche la Rai a riprendere il concerto. Ma già nei mesi scorsi di Davide Van de Sfroos si erano accorti, tra gli altri, “Domenica in”, “Uno mattina” e Luciano Rispoli.
Punk? No, contrabbandiere
Alla fine anche la gente che piace se lo è fatto piacere. «Non faccio altro che guardare nel pozzo del mio passato per ricercare la mia identità ed evitare che qualcosa si perda» spiega quando qualcuno gli chiede perché canta in dialetto. E la cerca in un popolo «come in un tappeto di mille fili, ognuno con la sua consistenza in sé, eppure unito agli altri. Che cos’è un paese senza i suoi 600 abitanti?». In fondo potrebbe essere la miglior definizione di federalismo: identità nelle differenze. Per anni, alla fine di ogni concerto, all’immancabile giornalista che gli chiedeva se era leghista ha risposto che «l’unica cosa che mi interessa sono gli uomini e le loro storie».
Poi allo stesso giornalista che gli obiettava che allora era di sinistra, anche perché da ragazzo aveva suonato in una band punk-rock ha risposto: «Sì, lo fatto. Poi ho scoperto che anche con le borchie, i jeans e la maglietta strappati non ero nato a Londra o a Los Angeles. E mi sono messo a raccontare le storie del mio paese. Dove il vero punk è il contrabbandiere, quello che non si è sposato e a 60 anni è sempre in giro sbronzo». Così col suo berretto, il foularino e gli scarponi è arrivato fino agli studi Tv. Dove nei corridoi c’è sempre qualcuno che gli sussurra dietro le spalle: «Ora si monta la testa, si attacca al cavallo sbagliato, si brucia e torna da dove è venuto». Lui ascolta tutto e da vero laghèe fa finta di niente: «Boh, io credo di essere così anarchico da non essere nemmeno anarchico».
Il vangelo in dialetto laghee
«Il mio apostolo preferito è Pietro» dice il De Sfroos. «Mi piace per il carattere. Sul vangelo si dovrebbe fare uno spettacolo in dialetto. In fondo è nato tutto così, tra la gente. Anche Pietro era un soprannome, come quelli di paese, il suo vero nome era Simone». Già, immaginatevi Gesù, attacca il De Sfroos: «“Cosa diss la gent de mi? E vialter? E lu?” rivolto a Simone: “Ti te se el fieu del Dio vivente”. “Bravu! Da dess ti te ciamet Sass. E su questo Sass moenti sò con tucc il pes e costruis tuta la me Gesa”». E lì è cominciata tutta un’altra storia, un altro caso strano.
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