Uomini liberi sul palcoscenico del mondo

Di Boffi Emanuele e Giojelli Caterina
01 Settembre 2005
«NON BASTA PARLARE, OCCORRE PARLARE SERIAMENTE» SCRIVEVA SHAKESPEARE. ED è QUELLO CHE PROVANO A FARE SEVERINO, NEGRI, ALLAM, RIOTTA, GIORELLO, MAFAI, TERRAGNI, COLOMBO, DOPO AVER LETTO LA LEZIONE SULLA LIBERTA' DI JULIÁN CARRÓN AL XXVI MEETING DI RIMINI

Ad incorniciare la lezione di Julián Carrón al Meeting di Rimini ci hanno pensato i due lunghi applausi che dall’Auditorium della Fiera si sono levati prima e dopo le sue parole. Qui di seguito ne proponiamo le chiose che filosofi e teologi, giornalisti e scrittori, interpellati da Tempi, hanno voluto mettere per iscritto dopo aver letto o ascoltato il discorso dell’erede di don Giussani alla guida del movimento di Comunione e Liberazione. Prima – e per sommi capi – riassumiamo le parole che il teologo spagnolo ha pronunciato a Rimini il 22 agosto 2005.

“La libertà è il bene più grande che i cieli abbiano donato agli uomini” era il titolo dell’edizione e anche dell’incontro su cui l’erede di don Luigi Giussani era stato chiamato a condurre il suo intervento. «Per la libertà si può e si deve mettere a repentaglio la vita» dice don Chisciotte a Sancio e «invece noi oggi – ha constatato Carrón – siamo in una situazione in cui è difficile trovare uomini liberi che si avventurino nel cammino della libertà». Per Carrón l’età moderna vive la malattia di una riduzione della libertà ad assenza di legami, la sminuisce a rottura di vincoli, non senza subire le controindicazioni di questa scelta: «Non si trova niente all’altezza dei propri desideri, niente soddisfa abbastanza, tutto passa senza lasciare traccia». Come nella parabola del Figliol prodigo, l’uomo sceglie di rinnegare il padre e si ritrova con un padrone, così che «la noia diventa la sua compagna e la realtà gli risulta inospitale ed estranea». «Cos’è dunque la libertà?» ha chiesto Carrón, o meglio, «quando ci sentiamo liberi? Quando vediamo soddisfatto un desiderio». La soddisfazione è bene da pagare a caro prezzo come sapeva il Cesare Pavese che al successo del Premio Strega si domandava «a Roma, apoteosi. E con questo?». Accusare le cose di insufficienza e di nullità come faceva Leopardi è il segno manifesto del continuo moto perpetuo in cui la realtà ci mette e «chiama la nostra libertà ad aderirvi. Perché voglio avere capacità di scelta? Per aderire a ciò da cui sono colpito e attratto». Ma come può una libertà finita, umana, nata da essere corruttibile, immischiarsi con una soddisfazione infinita? «L’unica ipotesi ragionevole è l’infinito. Questa apertura alla totalità è il segno più palese che l’uomo è rapporto diretto col Mistero che lo fa». Perciò «la libertà è adesione all’Essere, al Mistero che ci fa, al Tu reale e misterioso da cui sono fatto in questo preciso istante». A chi chiedere? A chi rivolgere la domanda di rendere storicamente possibile l’espressione di questa libertà? «Con Gesù il Mistero è diventato “una presenza affettivamente attraente”, al punto da accendere il desiderio dell’uomo e sfidare come nessun altro la sua libertà, cioè la sua capacità di adesione». è capitato a Giovanni e Andrea che lo hanno vissuto – «è il metodo della preferenza» ha spiegato il leader di Cl – perché «Cristo non è venuto a risparmiarci l’esercizio della libertà». La sfida è rispondere a tale avventura, pronti a riprendersi dopo gli inevitabili tradimenti perché certi «che il cristianesimo riaccade sempre come avvenimento» e che «permane nella Chiesa, luogo della libertà possibile». Esiste dunque una chance per il cristianesimo: «Mettere sul palcoscenico del mondo uomini liberi».

Emanuele Severino
FILOSOFO
Concludendo la sua relazione al Meeting di Rimini, Julián Carrón ha riproposto il tema, caro a monsignor Giussani, che l’essenziale non è tanto un “discorso religioso”, ma (sono parole di Giussani) «l’esperienza di un incontro (.) Si incontra il Fatto cristiano imbattendosi in persone che questo incontro hanno già compiuto». Ricordo un editoriale de Il Sabato, scritto da monsignor Giussani nell’ormai lontano agosto 1992, e intitolato “Prima risposta a Severino”, dove quel concetto veniva riproposto. Su questa discussione tra Giussani e me si può vedere il mio saggio Pensieri sul cristianesimo (Rizzoli, 1995, VIII, XI).
Qui vorrei ribadire soltanto che concepire l’evento cristiano come un “Fatto” (sia pure con la F maiuscola) è, per il cristianesimo, estremamente pericoloso, perché, come sostiene anche la filosofia adottata dalla Chiesa, un “fatto” è ciò che è così, ma potrebbe anche essere diversamente. Se Cristo è Figlio di Dio, questo esser Figlio intende essere qualcosa di necessario, non un semplice “fatto” (non una semplice “verità di fatto”, come direbbe Leibniz). Altrimenti potrebbe accadere che Gesù non abbia più ad essere Figlio di Dio.
Per questo, mi sorprese un poco. il fatto che l’allora cardinale Joseph Ratzinger, in appendice al libro di Giussani È, se opera (30 Giorni, 1994) adottasse la formula di Giussani e scrivesse a sua volta che il cristianesimo è l’incontro con un «fatto obiettivo e originalmente indipendente dalla persona». Ma, osservo, anche se è indipendente dalla persona, il “fatto” resta un “fatto”, cioè qualcosa che potrebbe essere diversamente o non essere più.
Ecco, l’invito al dialogo, oggi frequentemente rivolto dai cattolici agli altri, mi trova disponibilissimo. Come sono stato disponibilissimo all’invito del cardinale Scola di discutere il senso del “laicismo” – anche se egli aspetta ancora a rispondermi. Il dialogo non è forse, innanzitutto, discussione degli argomenti che l’interlocutore presenta?

MONS. Luigi negri
VESCOVO DI SAN MARINO-MONTEFELTRO
Un filo conduttore lega i due grandi avvenimenti ecclesiali di questo mese di agosto: la Giornata Mondiale della Gioventù di Colonia con il primo incontro di Benedetto XVI con i giovani di tutto il mondo e il grande evento del Meeting di Rimini dedicato alla libertà.
In una sua straordinaria e per certi aspetti profetica intuizione negli anni Venti Romano Guardini scriveva: «Come non riconoscerlo con stupore, la Chiesa rinasce nelle anime». Forse potremmo dire così, oggi: “La libertà sta rinascendo nei cuori”. Sul tema della libertà il popolo di Colonia e il popolo del Meeting si sono incontrati con la irresistibile immediatezza della vita. Come ha ricordato don Julián Carrón nella sua magistrale lezione al Meeting l’uomo è la sua libertà, la sua capacità di stare di fronte alla realtà e di farsene ferire desiderando il Bene, il Bello, il Giusto: cioè il compimento del suo destino di felicità umana. Risentire forte il brivido della libertà come impegno totale dell’intelligenza e del cuore. A questo i giovani di Colonia e il popolo del Meeting sono stati richiamati e da questo hanno deciso di partire, perché la vita possa essere piena di senso e di significato. Il tempo della libertà come incondizionata affermazione della propria intelligenza, della propria volontà, del proprio potere scientifico, tecnologico o politico ci sta veramente alle spalle. Una libertà senza ricerca della verità è diventata un tremendo progetto di riduzione degli uomini alla libertà, cioè al potere di alcuni: e la società ha visto con uno sgomento che spesso è sconfinato nel terrore, l’affermarsi di totalitarismi che hanno distrutto tutto: la ragione, la libertà, l’amore, la giustizia, la solidarietà sociale. La libertà esaltata ideologicamente come potere dell’uomo ha compiuto la sua parabola divenendo la forma di un potere infinito esercitato sull’uomo, la sua manipolazione da parte dei poteri forti tecnologici e politici. Ripartire da sé e dalla propria incoercibile attesa di Dio rende questa generazione al di là della sua stessa consapevolezza critica, come la generazione del Figliol Prodigo che torna dal Padre. Perché il Padre, che ci aspetta da sempre e per sempre, ha mandato il Figlio Suo Gesù Cristo: la grande presenza amica che dà consistenza alla nostra libertà e la educa in maniera positiva e costruttiva.
La libertà dell’uomo, la sua ragione è sfidata dalla presenza di Cristo. Ma Cristo è la misericordia di Dio, che ci accoglie nel profondo del nostro cuore e apre davanti a noi il cammino verso una vita nuova, in cui può compiersi e si compie il desiderio della nostra umana felicità. La Chiesa, nella sua concreta esperienza di “comunità guidata al destino”, come ci ha insegnato don Giussani, è stato il grande evento di Colonia e Rimini. Nella Chiesa e per la Chiesa, la libertà diventa ogni giorno più matura: nella sequela di Cristo l’intelligenza si dilata e il cuore si fortifica ed i giovani, da subito, capiscono di diventare protagonisti della loro vita e della storia. Costruttori, già sulla Terra, nella concretezza particolare dell’esistenza vissuta come materia della grande missione ecclesiale, di quel «Regno celesto, / che compie omne festo / ch’el core ha bramato» come scriveva in modo indimenticabile e per noi indimenticato, il grande innamorato di Cristo Jacopone da Todi.

Gianni riotta
VICEDIRETTORE E GIORNALISTA DEL CORRIERE DELLA SERA
Il punto cruciale dell’intervento di don Carrón è la libertà. Sartre disse una volta: «Non siamo mai stati così liberi come a Parigi occupata dai nazisti». Una frase che parecchi suoi critici leggono cinica, e che invece appare quasi rimorso precoce per il futuro nichilismo che (ricordate “Il muro”, il racconto dove bene e male sembrano confondersi nella condotta di un partigiano?) offuscherà la sua opera. Ho sempre pensato che Sartre abbia voluto dire cosa diversa: che cioè solo quando la libertà è negata, nella notte nera d’Europa, la scelta di esistenza di ciascuno di noi è possibile e radicale. Primo Levi, ridotto una larva sul cortile di Auschwitz, ricorda il grido del condannato a morte, davanti ai compagni costretti a seguirne l’esecuzione terrorizzati, «Kamaraden ich bin der Letze», amici sono l’ultimo a morire. Levi annota che nessuno di loro ha un brivido, la capacità di scegliere è cancellata. Ma il geniale grido del condannato ignoto sancisce la libertà scelta tra gli aguzzini, sulla forca: perfino nel buio della tenebra è possibile.
Don Carrón coglie il peculiare intreccio di orgoglio e umiltà che genera questa scelta. Il figliol prodigo torna a casa dopo avere abbandonato l’orgoglio, con umiltà, ma al tempo stesso è l’orgoglio di non finire tra i porci che lo riporta dal padre. Fra’ Cristoforo, nel Manzoni, non è meno fiero della libertà di cappuccino di quanto non fosse fiero della libertà di spadaccino: ma ora la fierezza è temperata dall’umiltà. Non è più fine a se stessa, nichilista. Ha visione, morale. L’arte classica ha una catarsi, de te fabula narratur. Senza questo passaggio che unisce Eschilo a Tolstoj, l’arte si smarrisce. Il silenzio, la frattura, la perdita dei linguaggi del Novecento è tutta qui. L’artista non sa più parlare per qualcuno, a qualcuno. Parla dentro il linguaggio e, come in un labirinto, si perde. Il nichilismo è oggi il nostro nemico principale. è il vuoto che anima i nemici della libertà, è il vuoto che priva chi pure vorrebbe difendere la libertà di strategia e prospettiva.
Occorre essere fieri della libertà, ma sapere con umiltà riconoscere che essa va ribadita ogni giorno: nelle nostre coscienze, nelle nostre società. Camus, fratello poi rivale di Sartre, immagina Sisifo felice mentre rotola la sua pietra. Perché capace di accettare la sua condizione (portare la Croce direbbe un cristiano, vivere il karma direbbe un buddhista) umana. In quanto bassa e umile, ma quindi eccellente, unica. San Francesco dei Fioretti insegna che, smarrita ogni parvenza di potere, si incontra il potere assoluto della “perfetta letizia” e il Padre Sergej di Tolstoj ammetterà che né la virtù guerriera, né la mistica del successo ecclesiastico può infine cancellare la vera virtù: quella che solo una povera donna, ultima, incontra, nella vita quotidiana. Don Chisciotte non è ideologico! è l’icona della fierezza umile, strumento ammaccato, bussola antica, ma quanto indispensabile nella nebbia di oggi. [email protected]

Magdi Allam
VICEDIRETTORE E GIORNALISTA DEL CORRIERE DELLA SERA
Credo che l’intervento di Julián Carrón abbia centrato l’essenza della crisi che attanaglia l’Occidente. è la crisi di chi ha perso la capacità di essere fino in fondo se stesso abbracciando una libertà che è stata umiliata e dimenticata a causa di un consumismo sfrenato e per i colpi di un’ideologia nichilista che ha il suo massimo rappresentante nel terrorismo suicida che miete vittime fra musulmani, cristiani ed ebrei, fra occidentali e orientali. Il recupero di questa libertà, così come sottolineato da Carrón, è possibile se questa libertà è eticamente orientata verso traguardi certi e sicuri. è la sfida maggiore del nostro tempo. Recuperare pienamente noi stessi e recuperare un’identità forte e condivisa che abbia al suo centro il bene oggi più a rischio: la sacralità della vita che viene meno per l’impeto consumistico e l’offensiva terrorista di matrice islamica che si rifà a ideologie nichiliste e che annovera fra i suoi simpatizzanti altre sette di estremisti anche in Occidente. Mi sento di condividere l’essenza del messaggio di Carrón e aderire al comune traguardo di libertà contestualizzata in questo panorama di un comune impegno etico.

Giulio Giorello
FILOSOFO ED EDITORIALISTA DEL CORRIERE DELLA SERA
Di rado mi sono imbattuto in una fenomenologia della libertà così ricca e interessante come quella presentata da Julián Carrón al Meeting di Rimini. Nelle battute iniziali, egli riesce a rendere in maniera assai pregnante quello che lui stesso chiama «il fascino dell’autonomia», cioè il nucleo centrale della libertà intesa come «assenza di vincoli» – secondo una caratterizzazione ormai classica nella tradizione libertaria (valga per tutti il Saggio sulla libertà di John Stuart Mill). Opportunamente Carrón richiama un’osservazione di Joseph Ratzinger (vedi Fede, Verità e tolleranza, 2003), per cui «istituzione, tradizione, autorità appaiono in sé come il polo opposto alla libertà». Ratzinger precisa che questo vale «nella mentalità dominante» – ma a me pare più interessante la qualificazione ulteriore: ciò capita «perché le forme regolate della libertà comunitaria non soddisfano».
Mi sia lecito prendere tali parole non come una critica di quello che ho chiamato il libertarismo classico, bensì come una constatazione del fallimento delle pretese dei “comunitari” nell’accezione tecnica del termine. Tra le “grandi promesse non mantenute” della modernità vi è proprio quella di realizzare la libertà del singolo entro una qualunque griglia di valori comuni. Ed è questo schema che non reggeva ieri, e non regge oggi, di fronte alla forma più coerente di libertà dell’individuo. Per dirla con Mill: «Nelle questioni che riguardano il singolo, la spontaneità individuale di ciascuno ha diritto a esercitarsi liberamente, gli altri possono proporgli o persino imporgli delle considerazioni che lo aiutino nel giudizio, o delle esortazioni che ne rafforzino la volontà; ma lui è il giudice ultimo». E ancora: «Tutti gli errori che [il singolo] può commettere ignorando consigli e ammonimenti, saranno un male infinitamente inferiore a quello di lasciarsi costringere da altri a fare ciò che essi ritengono il suo bene».
Dissento da Ratzinger là dove induce il lettore a pensare che la concezione milliana sia stata “dominante”: la prospettiva libertaria è stata invece continuamente calpestata da non pochi esperimenti politici del secolo scorso. E anche ora, agli inizi del terzo Millennio, nelle nostre fragili democrazie c’è sempre chi è pronto a sacrificarla in nome della sicurezza. Eppure, quel tipo di libertà rappresenta una delle esigenze più profonde di un soggetto razionale – se per ragione intendiamo, come diceva il poeta John Milton, la capacità di scegliere.
Sono d’accordo con Carrón quando dichiara che questo genere di esperienza è costitutivo di ogni donna o uomo che non si senta appagato dal soddisfacimento immediato dei desideri, ma necessiti di una continua e rinnovata tensione verso l’altro. Inoltre, ritengo che questa tensione sia essenziale per la religione, come per l’arte e per la scienza. Al di là delle differenze, ritrovo un comune sentire in quanto Carrón dice a proposito della libertà come decisione «di rispondere alla chiamata dell’attrattiva del reale». Sono anche del parere che una considerazione di tal fatta sgombri il campo da alcuni equivoci. Chi non ricorda la battuta di Benedetto Croce, per cui non potremmo non dirci cristiani? In realtà, possiamo non dirci cristiani, se scegliamo liberamente di non esserlo. Ovviamente, possiamo scegliere altrettanto liberamente di esserlo. Ed è proprio questa libertà di scelta che dà al fatto cristiano la sua dignità – una dignità che certe filosofie della storia di matrice neohegeliana, materialistiche à la Marx o idealistiche à la Croce, tendono troppo spesso a liquidare.
Capisco qual è l’obiezione che a questo punto potrebbe venirmi da Carrón. La prospettiva di una scelta continua, l’idea di una progressiva emancipazione dai vincoli potrebbe condannarci a quella che lui chiama la “solitudine”. Non lo escludo. Tuttavia, è un rischio che è intrinseco all’esperienza stessa della libertà. Riprendendo il suggerimento di Carròn, penso sia opportuno rivisitare la figura del “figliol prodigo”: essa anticipa mirabilmente il dissipatore di Friedrich Nietzsche. Questa dissipazione è comunque preferibile al conformismo dell’altro figlio della parabola, prima sottomesso e poi invidioso. Certo, credo che Carròn non possa o non voglia seguirmi sino all’elogio del wild rover, una sorta di opportunista della libertà capace di giocare ora la partita dell’anarchico o del ribelle ora quella di chi si riconosce solo in Legge e Ordine. Ma forse potremmo concordare sul fatto che la libertà del cristiano, nel senso di un incontro con la Parola che salva, prende vita anche dal contrasto con una libertà che trova nel non pretendere alcuna garanzia di salvezza la propria forza di pensiero e di azione.

MIRIAM MAFAI
EDITORIALISTA DI REPUBBLICA
Non sono credente e sono del tutto digiuna di filosofia. Ma ho letto con piacere con interesse e persino, in qualche passaggio, con emozione, il discorso di Julián Carrón dedicato al tema della libertà. Ho sentito infatti in qualche passaggio di quel discorso quasi l’eco di lontane suggestioni. Ero appena adolescente quando mi è stato insegnato, per dirla con le parole di Julián Carrón, che la «Chiesa è il luogo della libertà» o, per dirla con Sant’Ambrogio «Ubi fides ibi libertas». Non me lo hanno insegnato in parrocchia (che tra l’altro non frequentavo, essendo ebrea) ma in una sede del Pci. E per molti anni è stata quella la mia Chiesa e quella la mia libertà: una esperienza che non rinnego e che mi ha insegnato la disciplina, l’attenzione agli altri, il sacrificio di sè. Una forma di libertà anche questa se assunta responsabilmente. Oggi penso la libertà non come assenza di legami, ma come possibilità di sceglierli e coltivarli. Abbiamo davvero bisogno del padre? Non lo so, ma, coscienti della nostra finitezza e della nostra morte, abbiamo bisogno del figlio. La libertà non come soddisfazione di un desiderio, ma come capacità di nutrire costantemente nuovi desideri e cercare di soddisfarli. è la natura di questi desideri che distingue un uomo dall’altro. «Ciascuno di noi va per la sua strada / io a morire / voi a vivere / che cosa sia meglio / Iddio solo lo sa» (Platone, Apologia di Socrate).

Marina Terragni
GIORNALISTA DI IO DONNA
Sento nel discorso di padre Carrón una problematizzazione interessante dell’idea di libertà, soprattutto dove si dice che libertà non è saper resistere alla condizione di dipendenza degli uni dagli altri, e di ciascuno dal mistero. L’illusione dell’autonomia assoluta e la fatica di riconoscere il nostro bisogno stanno creando molta infelicità. C’è una riflessione femminile che si muove in un senso analogo, valutando gli eccessi dell’emancipazione, dolorosi per le donne e per tutti, e interrogandosi sulla possibilità di una libertà che prescinda dalla competizione con gli uomini, preliminare a qualunque emancipazione. Anche là dove Carrón dice – meglio, fa dire a una sua interlocutrice – che «la circostanza la subisco, oppure la vivo, l’abbraccio», sento risuonare l’esperienza di tante donne che non vogliono farsi intrappolare dalla rabbia e dal rivendicazionismo, e che fanno una politica basata sul vivere a fondo le relazioni, anche quelle professionali, occasionali e contingenti, producendo mutamenti microfisici e reali. Anche lì c’è mistero, c’è uno scarto che misteriosamente si produce e fa apparire ciò che ci lega non più come pastoia e limite ma come opportunità di una vita più umana.
Ascoltando Carrón, tuttavia, mi è mancato Ratzinger, la sua capacità di parlare ai non credenti e misurarsi con loro, necessità che oggi va tenuta in primo piano. Affermare che la Chiesa è il solo luogo della libertà non favorisce questo dialogo. Posti della libertà, io penso, ce ne sono altri.

Valentina Colombo
SCRITTRICE ESPERTA D’ISLAM
Condivido appieno la lezione di Julián Carrón. Mi ha fatto piacere ritrovare nella mia memoria una frase del Senso religioso di don Giussani quando chiede: “Cos’è la libertà?”. Questa idea che tutto riconduce all’incontro fra uomini liberi mi ha riportato alla mente un pensatore tunisino del XIX secolo che cercò in tutta la sua opera di spiegare al mondo musulmano cos’era la libertà occidentale. E questo pensatore spiegava che la libertà non è solo il contrario della schiavitù, ma che essa ha innumerevoli sfaccettature alfine tutte riconducibili al fatto di essere liberi perché si è “uomini appartenenti”, che si riconoscono legati a qualcosa. Solo ragionando sulle grandi questioni della vita e incontrandosi con le persone si può non avere paura. Oggi noi dobbiamo avviare un confronto libero con gli altri senza perdere la nostra identità, oggi dobbiamo intendere così la libertà per poter incontrare l'”altro”. Grazie per avermi “costretto” a fare i conti con questo bellissimo discorso di Julián Carrón.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.