
Uomini di mondo
A quarant’anni dalla Populorum progressio, in un’epoca di globalizzazione economica, Atlantide, trimestrale della Fondazione per la Sussidiarietà, ha chiesto a esperti, politici, accademici, economisti e persone coinvolte in primo piano nell’aiuto ai più poveri nel mondo (tra cui Peter Beinart, Silvio Berlusconi, padre Giuseppe Berton, Massimo D’Alema, Rodrigo de Rato, padre Piero Gheddo, Michael Novak, Dominick Salvatore, Javier Solana, Paul Wolfowitz) di affrontare questo tema fondamentale per tutti i paesi, del Sud e del Nord del mondo. Presentiamo qui alcuni stralci dell’editoriale di Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la Sussidiarietà.
Il termine sviluppo ha espresso per decenni un’aspirazione ideale unita a un entusiasmo ingenuo, originale e positivo accomunando cattolici e non. Paolo VI nella Populorum progressio ricordava che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace». A quaranta anni di distanza, in un’epoca di globalizzazione economica, comunicazioni veloci, nuovi organismi sovrannazionali, è importante rifare il punto della situazione.
(.) Si avverte in molti un giudizio positivo sulle opportunità che la globalizzazione porta con sé. Dice ad esempio il professor Dominick Salvatore, della Fordham University di New York : «La Banca mondiale ha stimato che, se il processo di globalizzazione non si fosse verificato, il numero di poveri sarebbe aumentato fra i 300 e i 650 milioni di individui nel giro di dieci anni anziché ridursi di 150 milioni nel medesimo arco di tempo». Tuttavia non si può sperare nel fatto che taumaturgicamente il mercato risolva tutto. Afferma Rodrigo de Rato, direttore del Fondo monetario internazionale: «Sei anni fa le Nazioni Unite hanno lanciato il programma Millennium Development Goals. A meno di un decennio dalla scadenza concordata per la realizzazione del programma, molti paesi poveri si trovano ancora in una situazione terribile, con il rischio di non raggiungere gli obiettivi fissati». Occorre perciò governare la globalizzazione come dice il premio Nobel Stiglitz nel suo ultimo libro La globalizzazione che funziona.
(.) È sulle modalità di questo governo della globalizzazione che ci si divide. Esiste una forte controversia di tipo politico e vede il netto contrapporsi di due visioni, che apparentemente riprendono etichette simili (buon governo, lotta alla corruzione, sviluppo della democrazia, ecc.), ma hanno accenti e priorità profondamente diversi. Una prima linea, propria di chi nelle istituzioni internazionali è allineato alle posizioni dell’amministrazione americana, sottolinea che la governance è innanzitutto l’affermarsi di una certa immagine di democrazia, la trasparenza istituzionale, l’accettazione di regole democratiche, la lotta al terrorismo e che questi passi, da parte delle diverse nazioni, sono prioritari. Dice Paul Wolfowitz, presidente della Banca mondiale: «Una buona governance non riguarda solo il governo, ma anche i partiti politici, il parlamento, l’ordinamento giudiziario, la stampa e la società civile. Una buona governance richiede tre cose: efficienza dello Stato, sensibilità ai problemi e accountability». Aggiunge de Rato: «Maggiori affidabilità e chiarezza possano aumentare la qualità della spesa pubblica, diminuire la corruzione e aiutare a ridurre la povertà». In linea con questa posizione, Silvio Berlusconi afferma: «Bisogna essere pragmatici e soprattutto considerare la cancellazione del debito non come un gesto di misericordia bensì come un atto di fiducia motivato nei confronti di un dato paese, la cui politica deve risultare chiara nei modi in cui, sollevata dal peso del debito, sia realmente avviata sulla strada del risanamento».
Il ruolo degli Stati Uniti
A questa linea si oppone la posizione della sinistra europea e americana, multilaterale, negoziale, anticonservatrice, che pensa che tali conquiste (democrazia, buongoverno, trasparenza) vengano da una mossa di apertura tollerante e benevola da parte dell’intera comunità internazionale. Dice Javier Solana, l’alto rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza comune dell’Unione Europea, che la promozione di una effettiva governance mondiale emerge da: «La compassione per coloro che soffrono, la pace e la riconciliazione attraverso l’integrazione, un forte attaccamento ai diritti umani, la democrazia e il principio della legalità, lo spirito del compromesso sommato all’impegno di promuovere in maniera pragmatica un sistema internazionale basato su regole». Gli fa eco Massimo D’Alema: «Le strategie della comunità internazionale infatti prevedono una condivisione delle responsabilità. I paesi beneficiari devono impegnarsi ad attuare politiche credibili in termini di “buon governo”, di democrazia, di lotta alla corruzione e di attuazione responsabile dell’aiuto allo sviluppo. I paesi donatori, dal canto loro, si devono impegnare ad assicurare un aiuto più ampio, ma soprattutto più incisivo». L’americano Peter Beinart, editorialista ed ex direttore del magazine liberal americano New Republic, aggiunge: «Occorre accettare che i diritti umani non corrispondono a qualsiasi cosa facciano gli Stati Uniti, solo perché l’America è, per definizione, libertà. I diritti umani sono una legge morale per cui lottiamo insieme al resto del mondo, combattendo anche la nostra capacità di commettere ingiustizie. Lottiamo insieme per raggiungere una legge morale che esiste al di sopra, e oltre, le nostre azioni».
Due visioni contrapposte, pur con mille “parole chiave” comuni, basate su una diversa visione della democrazia e del ruolo degli Stati: ma non vi sono altre dimensioni da sottolineare? Il professor Michael Novak cerca di fornire una base solida a una globalizzazione giusta riaffermando il principio di sussidiarietà e l’educazione delle persone, richiamandosi alla Dottrina sociale cattolica: «Le decisioni prese vicino al concreto tessuto della realtà e agli immediati interessi di chi le prende hanno maggiore probabilità di risultare concretamente intelligenti rispetto a quelle stabilite a un livello più alto, più distante e più astratto. L’educazione è la condizione sine qua non per lo sviluppo economico, perché niente potrà ridurre la povertà più che un deciso incremento del capitale umano». Gli fa eco padre Giuseppe Berton, missionario saveriano impegnato da decenni in Sierra Leone nella rieducazione dei “bambini soldato”: «Il primo sviluppo deve essere quello di rendere consapevoli le persone delle proprie capacità e della propria dignità. È un’educazione non scolastica del cuore, del loro cuore, a essere sé stessi, perché sono ricchi nelle loro tradizioni e ricchi nelle loro possibilità».
Educare, non solo alfabetizzare
In quest’ottica, Piero Gheddo, direttore dell’ufficio storico del Pime, mostra che la critica a questa posizione non è un generico richiamo umanista ma, sia pur ancora in nuce, un approccio alternativo e nuovo allo sviluppo: «Non basta alfabetizzare e insegnare scienze e tecniche, occorre istruire ed educare a quei valori che hanno permesso ai popoli europei di inventare i diritti dell’uomo e della donna, la democrazia, la giustizia sociale, la scienza e la medicina moderna, ecc.».
L’educazione, se è introduzione alla realtà totale, come dice don Luigi Giussani, avviene da persona a persona nella comunicazione di una esperienza di vita che provenga dal cuore di un uomo e parli al cuore di un altro. È quanto afferma Benedetto XVI nella sua enciclica Deus caritas est: «L’amore – caritas – sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore. Chi vuole sbarazzarsi dell’amore si dispone a sbarazzarsi dell’uomo in quanto uomo» (Deus caritas est 28b). È una prospettiva antica e nuova, tutta da investigare: forse la vera novità e speranza dei prossimi anni.
* presidente Fondazione per la Sussidiarietà
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