Un Pinocchio da Nobel

Di Nucci Alessandra
21 Giugno 2001
Nobel per la pace, ambasciatrice Onu, ora anche sul Corriere. Ma Rigoberta Menchù si è inventata tutto e un libro lo dimostra. Solo che lei continua a narrare la sua epopea spontanea e anticapitalista. E il teatrino va avanti col beneplacito della sinistra di pensiero. Che sia “autenticamente falso” è un dettaglio

Alcuni giorni fa il Corriere della Sera ha collocato in prima pagina un articolo di Rigoberta Menchù «Noi indigeni, figli devoti di Madre Terra». La scelta sia del tema e che dell’autrice fanno pensare. L’onore della prima pagina è scontato per un Premio Nobel, ma la fama della Menchù, e il suo Nobel, si basano su un percorso di vita che non è come si presenta nel suo opus magnum e unicum, Io, Rigoberta Menchù, il cui contenuto già da quattro anni è stato smontato e dimostrato essere in gran parte falso.

Veramente falso

A denunciare il caso è stato un antropologo di sinistra, David Stoll, professore dell’università di Middlebury. Trovandosi nel villaggio della Menchù in Guatemala per ricerche di altro genere, aveva chiesto ai compaesani «è questa la piazza dove Rigoberta vide morire bruciato vivo suo fratello?». La domanda invece di suscitare il rispetto che il professore si sarebbe aspettato, suscitò uno scambio di sguardi ironici fra la gente del posto. Mai conosciuto questo fratello bruciato vivo. Stoll, inizialmente incredulo, iniziò un’indagine che lo portò a intervistare 120 persone fra parenti, amici, insegnanti e compagni di classe dell’“Ambasciatrice dell’Onu”, in un lavoro durato una decina d’anni. Quando fu pubblicato, il New York Times mandò in Guatemala un reporter a controllare se quello che diceva Stoll era vero. Ne ricavò una facile conferma. Fu clamoroso. Non solo per via del Nobel, ma soprattutto perché Io, Rigoberta Menchù era entrato negli atenei d’America, consigliato o imposto nelle bibliografie e oggetto di centinaia di papers e tesi di laurea. Cosa contiene di tanto straordinario questo libro? È semplice: Mi chiamo Rigoberta Menchù è la storia che serve all’intellighentsia occidentale di sinistra per legittimare le proprie fantasie. Un po’ come in epoca romantica l’Ossian. Come l’Ossian forniva gli “autentici” versi romantici e tempestosi che si supponeva sgorgassero dal cuore dei bardi primitivi, così Mi chiamo Rigoberta Menchù fornisce finalmente un esempio vero della spontanea lotta di classe teorizzata da Marx e mai rinvenuta nella vita reale. Non rivoluzioni studiate a tavolino e capeggiate dai figli della borghesia come Lenin e Marx, ma la vera epopea spontanea, con da una parte la classe dei privilegiati perfidi e predoni e dall’altra i contadini lavoratori analfabeti, sfruttati, spossessati e martiri, che si mantengono sempre però nobili e irremovibili nella pura ideologia. Peccato solo che, come l’Ossian, anche l’autobiografia della Menchù sia un collage di frammenti di verità misti a invenzione.

Multicultura unica e obbligatoria

Rigoberta Menchù dipinge infatti la sua come una povera famiglia indigena che viveva ai margini di un paese da cui erano stati espulsi ai tempi dei conquistadores. Il padre Vicente viene presentato come impegnato in una battaglia eroica ma disperata per organizzare la resistenza contro i padroni ladino, discendenti dei conquistadores, a difesa di un pezzetto di terra da coltivare. Di sé Rigoberta narra che, a causa del duro lavoro nei campi, e della nobile diffidenza del padre per la cultura borghese, le fu impedito di andare a scuola, per cui rimase analfabeta. La realtà invece è molto diversa. Non solo i Menchù non erano dei poveri senzaterra, ma Vicente Menchù era proprietario di oltre 2,700 ettari di terreno. Rigoberta non trascorse la giovinezza a lavorare, 8 mesi l’anno, sulle piantagioni, ma frequentò due collegi prestigiosi, tenuti da suore cattoliche. E la lunga disputa per la terra, narrata come evento centrale del libro, fu in realtà una contesa fra Vicente Menchù e i suoi parenti maya, capeggiati dallo zio della moglie, intorno alla proprietà di un piccolo appezzamento di soli 150 ettari. Ma il clamore suscitato dal libro-verità di Stoll è dovuto soprattutto al fatto che la Menchù si è imposta non come un mito del marxismo, solidale con la guerriglia castrista, ma come testa di ponte della multiculturalità, messa a fianco ad Aristotele, Dante e Shakespeare a rendere politicamente corretti gli esami di “Civiltà occidentale”. Questo è il paradigma irrinunciabile che unisce post-marxisti, ambientalisti e, in modo quasi-ossimorico, anti-globalizzatori, tutto il popolo composito dei contestatori itineranti legati al nome di Seattle. Non a caso essi temono l’omologazione delle multinazionali, del Wto e del Fondo monetario, ma invocano di fatto quella delle Nazioni Unite. La multicultura, che rivendica rispetto per il diverso, in realtà è cultura unica e obbligatoria, l’unica visione del mondo permessa. Il suo principio dichiarato, l’inclusività, livella e relativizza gli usi e le idee di centinaia di milioni di persone e le mette sullo stesso piano degli usi e delle idee di ogni “minoranza”. Il suo principio “non” dichiarato ma implicito e ferreo è l’esaltazione incondizionata di tutto ciò che occidentale non è. Il fondo della Menchù sul Corriere parla del carattere «sacro» della Terra, «radice e fonte della cultura», «madre» che merita «venerazione, onore, tenerezza, rispetto spirituale, devozione» e con cui i popoli indigeni, saggi per definizione, sanno vivere «armoniosamente, proteggere e curare». Tutto ciò costituisce la spina dorsale del movimento New Age, adottato di fatto come religione universale dai maggiorenti delle Nazioni Unite. I suoi effetti pratici sono di rinforzare la spinta al moderno luddismo, alla demonizzazione del progresso tecnologico, e all’invocazione di misure come quelle del Trattato di Kyoto, suscettibili di comprimere l’economia e creare disoccupazione e povertà smisurate, o forse è più giusto chiamarle “globali”.

Articoli correlati

0 commenti

Non ci sono ancora commenti.