
Su Startmag Pierluigi Mennitti scrive: «Nel governo tedesco è battaglia da giorni. Liberali da un lato, Verdi dall’altro e il cancelliere con i suoi socialdemocratici nel mezzo. La Fdp questa volta si è messa di traverso, forte anche della titolarità del ministero dei Trasporti, supportata dalla ringalluzzita opposizione cristiano-democratica, ma anche da associazioni automobilistiche e da una parte dell’industria dell’auto. Un blocco che ha consentito ai liberali di imporre all’esecutivo la propria posizione, nonostante gli strali degli alleati ecologisti. Ma le prime reazioni politiche interne lasciano intendere che la partita non è chiusa e che nel governo il confronto proseguirà acceso. La domanda è se Olaf Scholz, una volta rientrato dalla visita lampo a Washington, prenderà di petto il tema e terrà la barra del governo ferma sulla posizione riaffermata ancora una volta dal ministro Wissing: la Commissione europea deve presentare una proposta su come i carburanti sintetici climaticamente neutri possano essere utilizzati nei motori a combustione dopo il 2035».
Questo articolo di Mennitti è di qualche girono fa, ma è utile, al di là dei compromessi che si stanno raggiungendo a Berlino, per capire le difficoltà della sinistra europea anche in una nazione dove socialdemocratici e verdi hanno buone basi sociali e culturali, con una Spd molto concreta nel rapporto con i lavoratori ma orfana della pasticciata linea Merkel–Schröder in politica estera, e i Grünen solidamente schierati per una linea internazionale atlantista ma molto ideologici nelle politiche ecologiche. E se a Berlino le prospettive della sinistra sono complesse, figurarsi in altre grandi nazioni europee dove la liberaltecnocrazia macroniana ha svuotato il partito socialista, il commissariamento napolitaniano della democrazia ha svuotato il Pd italiano, una deriva ultralaicista mette a rischio il ruolo di governo dei socialisti spagnoli, e la più solida socialdemocrazia scandinavo-baltica non riesce a proiettarsi fuori dai confini nazionali.
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Sul Sussidiario Giulio Sapelli scrive: «La guerra non si vince solo con le armi, ma anche con l’intelligenza strategica. Il disordine non può che favorire l’impero russo che in quei plessi strategici ha radici profonde e dispone dell’arma della complicità etnico-religiosa. Di qui la necessità di non dare legna a questo fuoco».
Sapelli scrive di mosse rischiose in Georgia, ma potrebbe citare anche i problemi sorti in Moldavia o le minacce azere all’Armenia. Il rischio di un vasto e sempre più ingovernabile disordine globale è confermato dagli accordi tra sauditi e iraniani firmati a Pechino. Sconfiggere l’aggressione russa a Kiev è necessario, ma lo è anche cercare nuovi equilibri internazionali.
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Su Strisciarossa Marco Filippeschi scrive: «Il Partito democratico è in molti luoghi la somma disordinata di micropartiti personali. Spesso, ma non sempre, incanalati nelle correnti. È il “tu di chi sei” che Elly Schlein ha denunciato tante volte. “Comunità politica” è una bella formula in uso ma suona ipocrita, almeno per chi ha conosciuto o studiato cosa è stata una vera comunità politica e oggi osserva la realtà: la volontà di ascolto reciproco e di confronto con esperienze e competenze è spesso azzerata. Partiti, tutti, capeggiati e dominati da chi ha già sue proprie risorse finanziarie e comunicative e si gestisce come “comitato elettorale permanente”. Partiti dunque sempre più irraggiungibili, non contendibili per i ruoli istituzionali maggiori. Perché sono determinanti gli staff nelle istituzioni, le notevoli indennità, l’investimento personale sui social, le relazioni che diventano esclusive e che vanno a condizionare il finanziamento privato della politica. Anche l’organizzazione del Pd è stata svuotata. Ai diversi livelli non c’è più neppure l’apparato che può avere una piccola associazione. Gli apparati però ci sono, di nuovo tipo: personali, sostenuti con le risorse pubbliche a disposizione per formare gli staff. Un partito senza struttura non può promuovere la partecipazione. Il tesseramento spesso è fermo o in caduta – il dato che era emerso alla vigilia dell’ultima fase congressuale parla chiaro – o, peggio, è gonfiato, artefatto quando c’è da contarsi, come dimostrano le forti oscillazioni che si possono rilevare in prossimità dei congressi. L’inchiesta di Fanpage sui signori delle tessere che abbiamo visto in questi giorni è solo l’ultima di una serie. Un osservatore attento com’è Antonio Floridia a proposito del voto nei circoli e del ribaltamento avvenuto nelle primarie in un articolo per Il Mulino ha scritto: “A furia di sminuire il ruolo degli iscritti, o a farne solo dei ‘pacchetti’ per la conquista delle cariche elettive locali, questi iscritti sono divenuti sempre meno un qualche ‘microcosmo’ dell’elettorato più ampio del partito, ma solo un suo specchio deformato”. C’è un gioco ormai scoperto a restringere la partecipazione democratica interna. È una semplificazione voluta, a cascata: ci si mette d’accordo in pochi. Da qui anche i frequenti “doppi incarichi” o gli incarichi di partito fittizi. Per non dire dello stillicidio dei commissariamenti delle organizzazioni. Le riunioni degli organi dirigenti, almeno dal livello regionale in giù, si sono rarefatte e sono sostituite da incontri informali fra maggiorenti, fra coloro che hanno incarichi pubblici di vertice. Tutto ciò produce solo due specie, in una dinamica organizzativa implosiva: capi e gregari. Gregari ai quali è richiesto conformismo. La militanza allora si esaurisce per assenza di coinvolgimento e passione. E insieme si svanisce la legittimazione popolare, rimane e si rafforza in confronto solo quella istituzionale, ma inaridita e impotente a cambiare. Così ci si può abituare ad una certa allergia alla trasparenza, alla pratica di un diffuso clientelismo, alla disattenzione alle prescrizioni degli statuti e dei codici etici. Vizi che hanno contribuito al crollo di alcuni grandi partiti della Prima Repubblica. Questi vizi oggi rischiano di azzerare merito e impegno, di mortificare tante energie, premiando chi è più spregiudicato; svalutano le qualità dei dirigenti e dei militanti; penalizzano le donne, che sono meno competitive in un tale contesto; allontanano i giovani».
L’impietosa analisi del Pd da parte di Filippeschi è convincente, ma dietro questa analisi si legge la nostalgia per un passato irriproducibile. L’organizzazione politica del Partito comunista italiano era costruita su una situazione internazionale determinata dalla Guerra fredda, su ordinamenti istituzionali determinati dalla Guerra fredda e su un ruolo nazionale che in quel contesto Palmiro Togliatti era riuscito a definire ed assumere. Oggi la Guerra fredda non c’è più, quella calda russo-ucraina può suscitare spinte pacifistiche ma il tardo imperialismo grande russo non parla alla società italiana, la Costituzione è in crisi nei suoi ordinamenti e la sinistra magari talvolta (anche spesso) esprime un ruolo europeo ma stenta a definire un profilo nazionale. Ricostruire un’organizzazione politica partecipata senza fare i conti con il contesto che l’ha determinata finisce per non essere che un inconcludente esercizio astratto.
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Su Open si scrive: «Brucia ancora per Emma Bonino lo strappo di Carlo Calenda che si sfilò dall’accordo che +Europa e Azione stavano stringendo con il Pd per la presentazione delle liste alle ultime elezioni politiche. Da allora i rapporti tra i due non sarebbero per niente migliorati, mentre l’ex senatrice ci tiene a ribadire che certe cose non le dimentica facilmente. A Un giorno da pecora su Radio 1, Bonino va giù duro: “Calenda? Non l’ho più sentito. Io ho memoria, ognuno fa quello che vuole, ci sono modi e modi ma io i voltafaccia repentini non li sopporto e quindi ognuno per la sua strada. Non dimentico”. E mentre Matteo Renzi, proprio assieme a Calenda, tira dritto sul progetto di un partito unico centrista che punti almeno al 10 per cento, Bonino li stronca: “Neanche loro sanno cos’è il Terzo polo”. Certo la leader radicale non mette da parte il pragmatismo, consapevole che già alle prossime elezioni europee un compromesso dovrà accettarlo per superare l’esame delle urne. E così apre uno spiraglio: “Io ho l’impressione che si debba andare ad alleanza elettorale e che poi al partito unico ci si penserà”. La porta quindi resta socchiusa».
Una delle caratteristiche che hanno contribuito a far esercitare un grande ruolo a Marco Pannella sulla scena italiana è stato l’ancoramento della politica dei radicali a un incrollabile atlantismo. Oggi magari le critiche di Emma Bonino alla banda Renzi-Calenda sono in parte condivisibili, ma un giudizio sulle ultime elezioni politiche e sui voltafaccia calendiani non può prescindere dall’influenza pro Pechino del quartetto Massimo D’Alema–Romano Prodi–Giuseppe Conte–Beppe Grillo sulla sinistra “che c’è”, tanto più che ora il “francese” Enrico Letta è stato sostituito da una leader improvvisata, molto influenzata dallo stesso Prodi.