Pubblichiamo la rubrica di Renato Farina contenuta nel numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)
Siamo di fronte a uno sciame sismico di terrorismo. Boris non vuole diffondersi in analisi sulle fondamenta del male e sulla natura intimamente malvagia di una rivelazione che si pone dopo quella di Cristo. Ci ha pensato Benedetto XVI una volta per tutte a Ratisbona il 14 settembre 2006. Proprio in quel viaggio Ratzinger rinnovò l’invito agli uomini di “fede islamica”. Che desiderano Dio, lo mendicano sinceramente, paragonando la proposta del Corano con il loro cuore. In questo ciascun uomo e donna è uguale, siamo della stessa razza religiosa, cioè umana. Detto questo siamo in guerra. La questione della sicurezza è dunque centrale. Boris ritiene necessario che gli Stati decidano investimenti di tipo israeliano nella cyber security e nell’educazione della gente comune a fronteggiare i pericoli, con insegnamenti appositi nelle scuole e nei luoghi di lavoro. Occorre instaurare una psicologia di guerra, non per generare paura, ma per diffondere la consapevolezza del rischio, insieme alla possibilità di fronteggiarlo senza fatalismi perdenti. Se un pazzo avesse estratto la pistola in un McDonald’s di Tel Aviv non ci sarebbe stata strage, forse uno sarebbe morto, ma in dieci sarebbero balzati sul terrorista. Senza essere eroi, ma sapendo che fare.
Ma ho una cosa qui. Sul petto. E io sostengo che c’entra, non è alternativa alla sicurezza e alla caccia agli assassini, ma è ancora più importante, genera stupore, mi commuove nelle viscere, mi fa dire che è impossibile. Ma invece è stato possibile, ed è un miracolo. È il canto di cui parlava don Giussani e che fermerà – adesso o l’ultimo giorno, non so – le scimitarre del Califfo. Ilda ha parlato così nella chiesa milanese dei santi Nabore e Felice, durante la messa di addio per il padre Mario, 91 anni, una delle 83 vittime dell’attentato del 14 luglio: «Quando sono andata sul luogo dove è stato ucciso papà ho visto tanti fiori in corrispondenza dei posti dove erano state falciate le vittime. Invece, dove la polizia ha abbattuto l’assassino, la gente gettava rifiuti, sputava e imprecava. A me è venuto spontaneo pregare per l’anima di quella persona, perché voglio che vinca la misericordia e non l’odio».
Una cosa così ci indebolisce? Fa male all’Occidente? Ne sgonfia i muscoli per la difesa degli inermi? No, no, no. È una forza potentissima. Solo una figlia aveva il diritto di dirlo. Ho letto una cosa simile solo in Vasilij Grossman, Vita e destino, dove una donna scorge il corpo rinsecchito, mummificato, della sua figlia adolescente assassinata dalle Ss a Stalingrado, estratto dallo scantinato delle torture, in braccio a un prigioniero tedesco, che vedendo la madre avanzare verso di lui con un mattone gelido in mano è sicuro della propria morte, e sa che è giusta. E invece lei, improvvisamente, guardando i capelli d’oro, l’unica cosa intatta della figlia, fa cadere il sasso e gli mette in mano un pezzo di pane.
È così umano, vero, possente quel gesto. Mi viene in mente quanto mi consegnò padre Divo Barsotti, una grande figura troppo poco ricordata, in una intervista (Litterae Communionis Tracce, gennaio 1994, pp. 10-13). «Io prego, attendo, spero. Ritorna per me la tentazione dei primi padri della Chiesa: posso io accettare la mia salvezza senza la salvezza di tutti gli altri? È per me oggi un problema teologico molto grave. L’atto di Cristo ha salvato davvero tutti. E solo una volontà pervicace, folle, disumana, può rifiutare. Del resto se Cristo salva me, come posso io essere pienamente salvo senza trascinare in questa salvezza gli altri che sono attaccati, anzi sono aggrovigliati al mio io? So che non posso fare a meno di sperare per tutti, per tutti. Anche se so che l’Inferno esiste, eccome. Bisogna crederci. Ma sento che debbo sperare per tutti. Questa speranza accompagna i miei ottant’anni. No, non spero buddisticamente di sciogliere i miei legami. Ma che ce ne siano di più. Amato e amante in Cristo di tutti». Di Giuda, di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, di Ali Sonboly. Di Boris.
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