
Un calcio… alla cattiva sorte
Santa Maria del Pallone a volte s’affaccia dalle guglie milanesi e provvede a dare orgoglio ai cuori nerazzurri nei modi più impensabili. Accade che, da Campo dei miracoli di Pinocchio, il Meazza si tramuti in epicentro di un miracolo un po’ più ecumenico, una storia che dal capoluogo lombardo abbracci i quattro angoli del mondo.
Una storia che ha inizio con un presidente di Inter Futura come Massimo Moretti, e da un suo incontro diverso da tutti gli altri, che ha gli occhi di una piccola bimba di favela molto malata, subito adottata. E della richiesta delle altre figlie, davanti al nido brasiliano della nuova sorellina, «Papà, non puoi fare qualcosa per tutti gli altri?». Moretti è un papà speciale con amici speciali: avuta carta bianca dall’allora presidente Moratti, da sempre attivo nell’ambito sociale, ha radunato un’equipe di giovani da sguinzagliare a spasso per il mappamondo, armandoli di un marchio di fama internazionale, uno staff di specialisti e un progetto interamente costruito su… un pallone.
Dal campo profughi al campo da calcio
Provate a passeggiare per un campo profughi albanese, o per una foresta colombiana, e spiegare ai bambini che chiedono la carità o trafficano droga che devono andare a scuola. Provate a garantire loro un periodico check-up in ospedale, o a regalare un pomeriggio di sole e libertà ad orfani in istituti fatiscenti. Provate a gemellare israeliani e palestinesi sul campo da calcio, kippà-khefià-capelli neri al vento. Oggi la chiamano “responsabilità sociale di impresa”, ma allora, nel 1997, era un esperimento che, pur vantando illustri precedenti in casa nerazzurra con Inter Campus Italia, mai si era spinto oltreconfine senza finalità di scouting. Pareva anche un goccio azzardato, visti gli scenari interessati: situazioni serene e tranquille quanto solo un bombardamento a Sarajevo o la vita in una favela brasiliana sanno esserlo, e per cosa?
Coinvolgere ragazzini tra gli 8 e i 14 anni (quindi intoccabili dai predoni del calciomercato), fornir loro allenatori, supporto medico, abbigliamento sportivo e qualche pallone, al modico prezzo di una frequentazione scolastica seria e costante. È l’Inter Campus Estero.
Ma arrivare sul posto è cosa ben diversa dal progettare allenamenti made in Italy: «Abbiamo un segreto – sorride Nicoletta Flutti, Responsabile Area –: guardare negli occhi e con gli occhi dei locali. Accanto agli sponsor, una parte integrante del progetto è infatti rappresentata dalla scelta dei nostri partner: ong, federazioni locali, parrocchie, associazioni sportive, municipalità. Vogliamo essere una presenza stabile e costante senza sostituirci a nessuno, e non potremmo nulla di tutto ciò se non avessimo l’umiltà di porre avanti a noi la collaborazione con le istituzioni del luogo: è straordinario vincere l’iniziale scetticismo delle persone con la nostra voglia di esserci e quella dei bambini di giocare».
Nessuna parola a caso. Della guerra in Kossovo capita quindi che oltre le rovine sia rimasto qualcos’altro. Racconta Aldo Montinaro, Coordinatore Tecnico: «I campi profughi erano pieni di bambini, moltissimi senza un’anima ad occuparsi di loro: grazie all’amicizia con le suore marcelline della zona – caterpillar in scarpe da tennis! – abbiamo riempito quell’aria disperata col gioco del calcio e qualcuno ha ben pensato di ricordare quanto sia possibile il sorriso del dopoguerra trasformando i campi profughi in campi di calcetto: è un po’ la nostra filosofia: cercare di adattare la proposta al contesto, ma i risultati sorprendono anche noi».
Massimo Seregni, Responsabile Area, apre il bellissimo libro fotografico di Franco Origlia e mostra la serietà di tre donne in chador affiancare i larghi sorrisi dei figli in pantaloncino neroblù. «In Iran non è permesso alle donne di assistere al gioco del calcio, ed esse accompagnavano i figli ai campi piene di sospetto. È iniziato con uno sguardo al di sotto del velo per individuare il proprio bambino tra gli altri, poi un saltello per vedere il campo, e adesso un intero settore dello stadio è occupato da queste neo supporter, e guai a cercare di schiodarle!». E in effetti in tutta questa storia il ruolo da centrocampista spetta ai famigliari del bambino: «Se non hai la pazienza di spiegare tutto e coinvolgerli, essi si rivelano l’ostacolo più grosso. In Brasile ci siamo scontrati con l’enorme reticenza dei favelados, per i quali era ostica non solo la partecipazione dei figli a una scuola calcio, ma lo stesso andare a scuola».
Regalami un sorriso per Marcelinho
C’è voluto del tempo perché le cose raccontate prendessero un’altra piega («Adesso gruppi di favelados raccolgono cibo e vestiti per gruppi ancora più poveri di loro, giusto per permettere a tutti i bambini di poter giocare e non chiedere l’elemosina per tirare la fine del mese»), e ci sono volute delle storie, come quella di Marcelihno (bimbo di strada, deformato da un problema maxilofacciale al quale gli operatori locali di Inter Campus e un medico specializzato hanno regalato un piccolo intervento chirurgico che gli ha permesso di recuperare l’uso della parola), o come quella della mamma che voleva ringraziare quegli italiani, che conosceva solo attraverso il marchio di una famosa squadra di calcio. Voleva assolutamente conoscerli, perchè senza chieder nulla avevano restituito il sorriso al più piccolo dei tanti e poverissimi figli. Doveva trovarli per ringraziarli, perché il suo, come gli altri piccoli brasileri coinvolti, non sarà il nuovo Ronaldo o il nuovo Adriano, ma l’illusione – anzi – il sogno di poterlo essere è in realtà l’inizio di una speranza bambina, per il quale si esce e si studia contenti, un progetto che in poco tempo e con più carte in mano, si rivolgerà ad altri orizzonti, anche grazie a un istruttore di calcio, un po’ cambiato anche lui, così come racconta Lello Dragone, Coordinatore Eventi.
«Non solo chiedere l’aiuto degli altri, a volte ti capita l’opposto, come diventare un riferimento cui tutti chiedono aiuto. Mi ricordo la prima volta in Cina – sorride Aldo – anzitutto, al posto dei tradizionali 20/25 bambini per l’allenamento dimostrativo se ne sono presentati 85. Ho guardato i 4 palloni e mi è venuto un mancamento, ma era solo l’inizio di una serie di sorprese l’ultima delle quali mi vedeva protagonista di una comunicazione federale: «è severamente vietato criticare i bambini in campo perché l’ha detto l’allenatore dell’Inter”».
Sono aneddoti ma non sono aneddoti: raccontano molto di più, raccontano cosa significhi partire da un comune denominatore – il calcio – e avviare un discorso dagli orizzonti più differenti: da istruttore a educatore, dal sospetto all’entusiasmo, da un grande marchio famoso a minuscole realtà sconosciute, fino a quasi rabbrividire pensando agli opposti Israele e Palestina e scoprire, anni dopo la chiusura (forzata dalla guerra) del campus, che il progetto di adottare come linguaggio comune il calcio era l’unico ad aver avuto successo scavalcando musica e internet: i bambini avevano scelto che in campo le differenze alimentate dagli adulti non esistevano, e la guerra era cosa lontana mentre inseguivi un pallone. A Massimo sembra ancora di vederli correre.
O ancora arrivare in Camerun ed essere contattato da una scuola elementare: scusa, tu che sei stato l’unico a far sorridere i bambini per lo scatto di una fotografia, non è che organizzeresti dei corsi di formazione anche per noi insegnanti?
Piccoli grandi bambini del Camerun
«Eppure basta così poco – riprende Nicoletta –: basta guardare le facce dei bambini quando affidi loro il kit dell’Inter: “Mi raccomando, è vostro, siamo convinti che ne avrete cura e continuerete a dare il meglio a scuola”. Dovresti vederli, tutti seri e stupiti dal fatto che qualcuno dia loro fiducia disinteressata…».
Tanti tasselli di realtà piccina, accanto alla quale va costituendosi una cornice di adulti e partner sempre più importanti per la riuscita dell’integrazione; basti pensare a un paese come la Colombia, che sulla testa dei bambini ha tessuto spesse ragnatele di narcotraffico: «Mai avuto problemi: a Cali, per esempio, ci affidiamo alla partnership locale con l’Asociacion Deportivo Cali. È un esempio luminoso di vero supporto al nostro lavoro e condivisione degli obiettivi: avere la stessa ottica e riferire con fiducia a noi, profani del posto, come intervenire».
E basterebbe farsi raccontare quel giorno che l’Inter Campus raggiunse l’Est europeo senza chieder nulla in cambio, e aveva le sembianze simpatiche di un pallone da calcio, e dell’erba di un campo fuori dall’istituto. Basterebbe averlo osservato la prima volta, l’orfano rumeno, gettarsi nell’aria con i coetanei e scoprire di non riuscire nemmeno a correre, tanti anni era stato seduto ad aspettare qualcosa. E, appena uscito urlare e saltare di gioia, costringere gli allenatori ad inventarsi una sorta di gioco “bandiera” perché non riusciva a stare fermo. E correre qualsiasi numero venga chiamato, perché l’importante è non perdere nemmeno un secondo di quella libertà. Oppure basterebbe tornare un anno dopo, e non riconoscere quelli che sembravano centinaia di cuccioli impazziti dai coetanei della scuola calcio locale, tutti composti, insieme, uniti in una passione da condividere con gli altri, capaci di ascoltare gli altri. È anche questo il segreto di Inter Capus Estero.
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