Famiglie, volontari, sostenitori avevano aspettato pazienti il proprio turno davanti a CasArché, tra di loro una anziana, che in mezzo a quella carovana di doni, grandi pacchi e borsoni stringeva tra le dita ossute un sacchettino della spesa: due pacchetti di riso, due di zucchero. Padre Giuseppe Bettoni l’aveva ringraziata e il sacchettino era finito con le altre donazioni, lo scatolone chiuso, issato sul furgone. Due anni distanziati, trascorsi a non fidarsi di niente e di nessuno, eppure i convogli del terzo carico da portare in Ucraina erano di nuovo tutti pieni. Un solo giorno di viaggio divideva ancora una volta il presidente di Fondazione Arché e i suoi volontari da Leopoli.
«Alla terza trasferta le richieste si erano fatte più precise: oltre a cibo e medicinali generici all’hospice pediatrico di suor Giustina Olha Holubert serviva un latte speciale per i pazienti in condizioni delicatissime, sedie, passeggini e ausili per i disabili – spiega padre Bettoni -. E anche questa volta la risposta degli amici non si era fatta attendere».
Scatenare un’amicizia per Leopoli
Pochi giorni fa Tempi ha raccontato la storia di questa terza, formidabile, spedizione pasquale animata da religiosi, laici, medici, un clown, associazioni, profughi con e senza carrozzina, allarmi, scudi antimissili, giochi gonfiabili. Una umanità che si era messa al seguito dell’amicizia scatenata dalla neurologa Matilde Leonardi con un chiaro orizzonte: rispondere alla chiamata di un amico, padre Igor Boyko, rettore del seminario greco cattolico di Leopoli che non sapeva più come sfamare i profughi, e, al contempo, rispondere alla tragedia con l’operosità, mettendo a punto un modello di cura e inclusione dei fragili in piena guerra e senza precedenti.
«Se vuoi capire cosa è una guerra devi incontrare gli ultimi degli ultimi. Lo sguardo del bambino che vede suo padre tornare a est, a combattere, dopo averlo portato al sicuro insieme alla mamma. Lo sguardo del disabile abbandonato mentre suonano le sirene». Ma se vuoi capire cosa è una “pace”, nel frangente straziato da una sanguinosa inimicizia, bisogna proprio incontrare questi amici, questa vittoria sull’estraneità animata da Milano a Leopoli, dal medico al prete, dall’anziana in coda con un pacchetto di zucchero al bambino ucraino a cui manca la parola o il papà.
La riscossa dell’io dopo la pandemia
Padre Bettoni non conosceva padre Igor e suor Giustina, ma conosceva Matilde Leonardi, tanto gli era bastato per rispondere «va bene, vado io» alla richiesta di aiuto della neurologa e partire, tre giorni dopo, con il primo convoglio di aiuti, «soprattutto latte, omogeneizzati, cose per i bambini. Questo accadeva a metà marzo. Fino ad allora avevamo raccolto fondi per le caritas locali attraverso la rete di Caritas Internationalis e di Caritas Ambrosiana, per sostenere chi stava lavorando all’accoglienza dei profughi nei paesi confinanti. Mi colpiva la generosità immediata dei tantissimi che chiamavano per sapere come potevano aiutare, le offerte di chi ci ha portato quello che poteva, grandi spese o pochi spiccioli, “tenga, padre, per il viaggio a Leopoli”».
Certo, l’incessante copertura mediatica di una guerra nel cuore dell’Europa le immagini di madri e figli in fuga «avranno favorito l’identificazione, un’onda emotiva che si è poi tradotta nella corsa all’ospitalità che abbiamo visto in Italia. Ma sono convinto che dopo due anni trascorsi nel ripiegamento su di sé ci sia stata una riscossa dell’io, del bisogno di rapportarsi a un altro che nonostante isolamento e distanziamento non abbiamo dimenticato. Un altro che diventava uno come noi messo alla prova, in fuga, che bussava alla nostra porta. E in tantissimi l’hanno spalancata».
Custodire l’amicizia, fare verità
Le porte di CasArché si sono aperte a San Benedetto del Tronto (dove sono ospitate, negli appartamenti dei Padri sacramentini sei famiglie ucraine), Roma (due gli appartamenti dedicati all’accoglienza) e a Milano, «qui sono arrivati a fine aprile una nonna e un nipote di 13 anni. Una fuga drammatica la loro: sono scappati da Mykolaiv sotto i bombardamenti, la mamma del ragazzino purtroppo è morta di tumore». «Custodire l’amicizia»: è uno dei richiami portanti delle omelie alla Fraternità Arché di padre Bettoni, insieme a «fare verità», «abbiamo bisogno di fare verità perché la pace a queste condizioni non riusciamo a darcela».
E quando dice verità padre Bettoni non si riferisce a faccende di informazioni ma a un Dio che si è fatto carne «e non può volere la vita dell’uno e la morte dell’altro, la schiavitù di uno e la libertà dell’altro. Mi preoccupa il rigurgito di filo-putinismo che anche tra molti cristiani confonde l’aggressore con l’aggredito: c’è un’invasione, c’è un paese invaso che ha il diritto di difendersi e questo non può essere oggetto di discussione».
«Non possiamo rinunciare alla mediazione»
Allo stesso modo, ci dice padre Bettoni, «mi preoccupa il discorso dominante votato alla soluzione bellica come unica soluzione, a un orizzonte possibile solo con un vincitore e un vinto. Non possiamo non tenere aperta la via del dialogo, un dialogo che non confonda aggressore e aggredito, invasore e invaso, non possiamo rinunciare alla ricerca di una via di mediazione».
Fin dall’inizio del conflitto Arché ha diffuso in rete e sui suoi canali un ciclo di dialoghi per la pace, per “liberare” la cultura dell’incontro dallo slancio bellico e dalla diabolica fede nella guerra che accende focolai in ogni piazza e in ogni chiesa. È qui, nel frangente straziato dall’inimicizia, che un gruppo di amici laici, religiosi, italiani, ucraini, profughi, disabili ha organizzato la resistenza.