
Tutti gli uomini del neopresidente
Sabato 20 gennaio a mezzogiorno (è così dal 1933, quando un emendamento alla Costituzione fissò per legge il giorno dell’“inaugurazione presidenziale”), George W. Bush Jr. riceverà alla Casa Bianca l’investitura ufficiale che lo designerà 43° presidente degli Stati Uniti d’America nel corso di una solenne cerimonia (la 54a dalla nascita del Paese). Intitolata “Festeggiamo assieme lo spirito americano”, la manifestazione commemorerà e onorerà le tradizioni nazionali e i grandi risultati raggiunti dal Paese sin da quel 30 aprile 1789 in cui George Washington giurò nella più tardi notissima Wall Street di New York (fu Thomas Jefferson il primo presidente a iniziare ufficialmente il proprio mandato nella capitale federale Washington).
Mezzogiorno di fuoco
Bush è il presidente e Richard Bruce “Dick” Cheney il suo vice. Se il primo è figlio d’arte, il secondo è una vecchia (acciaccata) volpe di partito, in costante equilibrio dinamico fra pragmatismo e occhiolini alla Destra conservatrice. Un buon numero dei ministri scelti da Bush (negli Stati Uniti si chiamano secretary e solo alcuni portano il titolo di presidente o di responsabile di una specifica agenzia governativa) sono veterani delle Amministrazioni Nixon, Ford e Reagan. Salvo cambiamenti last minute — sempre più improbabili man mano che si avvicina l’ora dell’investitura ufficiale —, Colin Powell sarà il Segretario di Stato, Lawrence Lindsey l’assistente del presidente per la Politica economica, Andrew Card il capo del suo staff (i collaboratori più stretti) con Joshua Bolten come vice, Karen Hughes il suo Consigliere e L. Ari Fleischer il direttore dell’Ufficio stampa della Casa Bianca. Condoleezza Rice, coadiuvata dal vice Stephen Hadley, sarà il consigliere per la Sicurezza nazionale e Lewis Libby dirigerà lo staff del vicepresidente. Donald H. Rumsfeld sarà ministro della Difesa, Paul O’Neill del Tesoro, Donald Evans del Commercio, Mitchell E. Daniels del Bilancio, Spencer Abraham dell’Energia e John Ashcroft della Giustizia. Mel Martinez andrà all’Urbanistica, Norman Mineta ai Trasporti, Gale Norton agl’Interni, Roderick Paige all’Educazione, Tommy G. Thompson alla Sanità, Ann M. Veneman all’Agricoltura, Robert Zoellick al Commercio e Elaine L. Chao al Lavoro. Questi, oltre ad Anthony J. Principi e a Christine Todd Whitman, rispettivamente responsabili dell’Ufficio per i veterani di guerra e dell’Agenzia per la Salvaguardia dell’ambiente, sono i principali componenti della nuova Amministrazione Bush. All’opposizione Democratica, intanto, prudono le mani sul calcio dei revolver, come in un film della migliore tradizione western.
Il non-caso Chavez e la carità “libertarian”
Incalzata dalle polemiche, martedì 9 Linda Chavez, scelta per il ministero del Lavoro, si è fatta da parte. All’inizio degli anni Novanta, ha accolta in casa propria un’immigrata illegale guatemalteca, Marta Mercado. La Chavez, di orgine iberoamericana, avrebbe violato l’Immigration Reform Act del 1986 e contro di lei si configurerebbe ora il reato si sfruttamento di persone. La Chavez, però, trovò la Mercado in un ricovero per donne abusate, dove, senza un soldo in tasca, era stata accolta dopo essere sfuggita ai maltrattamenti e alle botte di un suo boyfriend. In segno di riconoscenza, la donna guatemalteca si applicò dunque alle facende domestiche di casa Chavez e da questa ricevette piccole somme di denaro per le spese personali. Nessun regolare e illegale salario, insomma, per nessun regolare e illegale lavoro. La più singolare e interessante delle reazioni resta comunque quella di Steve Dasbach, direttore nazionale del Libertarian Party, un “terzo partito” americano che dell’individualismo ha fatto una bandiera e da cui tutto ci si aspetterebbe tranne forse sentir pronunciare parole come “indulgenza” e “carità”. Per Dasbach, invece, la Chavez ha “dimostrato cos’è la vera compassione, dando a tutti gli americani uno splendido esempio di comportamento”. “Se davvero i politici vogliono aiutare gli affamati, i senzatetto e i disperati, i Libertarian li sfidano a fare ciò che ha fatto Linda Chavez: accolgano i poveri in casa propria, li mettano a proprio agio, li vestano, li aiutino anche economicamente, li amino. Fino a quando non lo faranno, i politici non avranno alcun diritto di criticare la Chavez per aver aiutato un essere umano sofferente”. Per i Libertarian, la Chavez sarebbe indubbiamente stata un perfetto ministro del Lavoro, capace d’incarnare concretamente quel “conservatorismo compassionevole” di cui Bush jr. si è fatto paladino, ovvero una politica fatta di persone, della loro buona volontà e della loro capacità di rimboccarsi le maniche senza aspettare (e senza pretendere o far sì) che sia lo Stato a occuparsi di tutto. Senz’alcun buonismo, ma con bontà.
Tempeste in un bicchier d’acqua
L’avventura di governo di Linda Chavez è finita ancora prima di nascere per colpa di un non-scandalo e al suo posto subentrerà Elaine L. Chao, di origine asiatica, Fellow della Heritage Foundation di Washington, uno dei più importanti think tank reaganiano-conservatori. Ma anche il titolare della Giustizia sta passando il suo brutto quarto d’ora. John Ashcroft si è permesso di dire che i “sudisti” non erano dei criminali (Il Foglio dell’11 gennaio ha inquadrato bene i retroscena della vicenda) e i Democratici ci si sono subito tuffati a capofitto. Gale Norton, designato al ministero degl’Interni, ha ribadito concetti analoghi (in realtà lo ha fatto quattro anni fa a Denver, quand’era responsabile della Giustizia in Colorado, ma è solo in questi giorni che Internet ha offerto a tutto il mondo il testo di quel discorso) e gli orfani di Clinton sono montati su tutte le furie.
La squadra
Per molti, il generale Colin Powell rimane l’eroe impavido delle forze armate e da lui si aspettano una politica militare di buon senso. Abbandonata (per ora) ogni velleità presidenziale, Powell (che, possibilista in fatto di aborto, si è da tempo alienato il sostegno di ampi settori del pubblico Repubblicano) appare più credibile con le stellette d’argento che non come incarnazione delle “stellestriscie” alla Casa Bianca. Un altro “veterano di guerra” è lo stesso vicepresidente Cheney, il vero artefice delle Operazioni Giusta Causa (Panama) e Tempesta nel Deserto (Irak). Per quanto riguarda Condoleezza Rice, la sua appartenenza al Council on Foreign Relations potrà allarmare qualche sospettoso avversario del mondialismo (non però la svedese-americana Lois Lindstrom, responsabile a Stoccolma della branca locale dei “Republicans Abroad”, un’organizzione diffusa in 52 Paesi, che ha fornito a Tempi informazioni ed elementi di valutazione preziosi e che, nonostante la carica ricoperta, non può essere annoverata fra certi ingenui entusiasti di tutto ciò che è Repubblicano). Eppure la Rice, docente all’università californiana di Stanford, è stata anche Senior Fellow alla Hoover Institution on War, Revolution and Peace (che sorge in quello stesso campus) presso cui hanno a lungo operato nomi del calibro di Robert Conquest (il primo pignolo ragioniere dei costi umani del comunismo mondiale) e di Angelo Codevilla, l’uomo chiave delle “guerre stellari” reaganiane. Per Spencer Abrahams, poi — oggi designato all’Energia, e già senatore e docente universitario nel Michigan — ha lavorato in qualità di speech-writer Bruce Frohnen, uno dei più intelligenti studiosi (critici) del movimento neocomunitarista nordamericano.
Washington (ri)chiama Bruxelles
Il neopresidente Bush, insomma, ha deciso di puntare su figure che, un poco tutte, mantegono rapporti di buon vicinato se non addirittura legami organici con quel vasto e variegato mondo culturalmente e socialmente conservatore che, ben più ampio dei ranghi strettamente di partito, non si è ancora arreso al pensiero debole trionfante in Occidente e ai (falsi) miti del politicamente corretto. Per questo non pochi giudicano l’era Bush jr. come una positiva novità che, per lasciarsi presto alle spalle le tristezze del doppio mandato di Clinton, presenta documenti apparentemente in regola. Almeno potenzialmente. Persino gli anni oggettivamente grigi (a paragone della luce portata alla Casa Bianca da Reagan dopo il buio di Jimmy Carter) dell’era Bush sr. sembrerebbero scongiurati. E chi allora vide come fumo negli occhi i riassetti da Nuovo Ordine Mondiale e le sfacciate offensive interventiste del presidente-padre oggi fa affidamento sui più miti consigli del presidente-figlio, il quale parrebbe addirittura intenzionato a ridurre sensibilmente l’impegno militare stunitense all’estero, per esempio in favore (è il caso dei Balcani) di forze d’interpolazione militare europee. La Francia, una delle nazioni-pilastro dell’Unione Europea, ne gioirebbe senza mezzi termini. E forse questo potrebbe da un lato ricucire ferite ataviche fra europei orgogliosi e americani invadenti, dall’altro dare al Vecchio Continente una ragione (per agire congiuntamente) diversa dalla retorica inconcludente dell’eurocrazia di Bruxelles
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