Erdogan è debole, la pantomima sugli ambasciatori lo conferma
Lo fa, forse ci ripensa. E poi fa marcia indietro. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, aveva minacciato di espellere dieci ambasciatori. Una mossa da sultano d’altri tempi, ma che alla fine si è ridotta al proverbio “can che abbaia non morde”, oltre ad aver prodotto due risultati, uno più negativo dell’altro. La lira turca ieri mattina all’apertura dei mercati era scambiata a 9,8 dollari e 11,3 euro. Un valore altissimo, per una valuta nazionale che, da inizio anno, si è già svalutata del 24%. In più, con questo gesto, Erdogan ha cercato di battere i pugni sul tavolo, ma alla fine si è solo fatto male alla mano. Non ha ottenuto nulla dal punto di vista pratico e ha fatto fare una figura da dilettanti a tutta la diplomazia della Mezzaluna. Al ministero degli Esteri di Ankara serpeggia il malumore. In molti avevano sconsigliato al presidente un gesto così estremo, come l’espulsione di dieci ambasciatori in una volta sola, per giunta dei più importanti partner europei e della Nato. Ma il capo di Stato non ha voluto sentire ragioni e ha fatto di testa sua, cosa che, negli ultimi anni, è capitata sempre più spesso.
Erdogan abbaia ma non morde
E così, sabato scorso, a Eskisehir, l’annuncio che avrebbe punito i dieci diplomatici, rei di avere firmato una dichiarazione che chiedeva la liberazione di Osman Kavala, filantropo, attivista per i diritti umani, arrestato, processato, assolto, ma messo successivamente di nuovo sotto inchiesta e quindi in carcere. «Si stracciano le vesti per Kavala – ha detto ieri Erdogan mentre si trovava a Eskisehir -. Kavala è la filiale turca di Soros. E per lui dieci ambasciatori si sono presentati al ministero degli Esteri. Che impudenza. Questa è la gloriosa Turchia. Chi ci può dare istruzioni? Nessuno. Ho dato mandato al nostro ministro degli Esteri di occuparsi quanto prima di dichiarare questi dieci ambasciatori come persone non grate. Così capiranno, conosceranno la Turchia».
Peccato che ieri il ministero degli Esteri non solo non ha inviato nessuna comunicazione. In serata Erdogan ha fatto diffondere una dichiarazione dove si diceva che la Turchia non vuole una crisi diplomatica. A molti addetti ai lavori, la dichiarazione di sabato era sembrata fatta per esaltare la folla e mantenere un consenso interno che inizia a vacillare. Anche perché era evidente che una mossa del genere si sarebbe rivelata un boomerang. Le rappresentanze colpite dall’invettiva presidenziale si sono limitate a dire che hanno agito nel rispetto della Convenzione di Vienna. Una dichiarazione di rito che, sui media interni, la presidenza della Repubblica ha fatto passare come una specie di scuse.
Il nodo ambasciatori
La verità è che tutta la situazione è stata gestita come un gran pasticcio fin da lunedì della settimana scorsa, quando la dichiarazione era stata consegnata. Il ministro degli Esteri, Mevlut Cavusoglu, aveva già convocato i diplomatici (nello specifico, quelli di Stati Uniti, Canada, Francia, Finlandia, Danimarca, Germania, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia e Svezia) e aveva bollato la loro iniziativa, perfettamente legale, come «irresponsabile». Ma il presidente, già noto per il suo carattere impulsivo, ha voluto optare per un gesto plateale nonostante tutti gli avessero chiesto di fare il contrario.
Così tanto, che vale la pena di capire da cosa possa essere stato dettato. Sul banco degli imputati c’è la politica estera della Turchia, sempre più assertiva e contraria agli interessi europei e americani. Come se non bastasse, Ankara, da anni, sta portando avanti un matrimonio di interesse con la Russia, da cui ha acquistato anche materiale bellico. Particolare che, per il secondo esercito (numerico) della Nato, è piuttosto grave. Dopo una condotta autonoma nelle crisi libica e siriana, la Mezzaluna sta cercando di ritagliarsi un posto al sole nell’Afghanistan a guida talebana. Non ci sono però solo i sogni di gloria a impensierire l’Occidente.
Turchia nella lista grigia per riciclaggio
Pochi giorni fa Ankara è finita nella lista grigia della Financial Action Task Force, per non avere impedito a sufficienza il riciclaggio di denaro sporco e il finanziamento del terrorismo. La Fatf è una agenzia di controllo indipendente, nata sotto l’ombrello del G7, dove, guarda caso, siedono molti degli ambasciatori che Erdogan vuole sbattere fuori.
L’inclusione della Turchia, per quanto assolutamente meritata, ha fatto scalpore, perché arriva in un momento in cui il presidente aveva bisogno di tutto, tranne che di una notizia del genere. L’inflazione è arrivata al 20%, la valuta nazionale, già fuori controllo da mesi, a inizio settimana è crollata di nuovo, anche grazie all’iniziativa del presidente.
Erdogan alla caccia di voti
La lettera sul caso Kavala, alla fine, è stata un pretesto per celare un motivo di contrasto che per Erdogan rischia di rivelarsi ben più pericoloso. Il capo di Stato ha preferito usare il motivo nazionalista e la teoria del complotto, quella, cioè di un Occidente sempre più di traverso rispetto ad Ankara, per nascondere la grave crisi economica che sta attraversando il paese. L’inserimento nella lista grigia della Fatf potrebbe inoltre portare nuovi problemi per quanto riguarda l’ingresso di nuovi finanziamenti nel paese, cosa di cui la Turchia ha assolutamente bisogno. Anche Erdogan, se vuole rimanere al potere. L’economia fiorente è sempre stata il suo fiore all’occhiello, l’unico motivo per cui una parte del popolo turco lo continua a votare.
Foto Ansa
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