Tugnett, che è trascorso tra noi come un mistero

Di Emiliano Ronzoni
12 Dicembre 2019
In memoria di un amico che se ne è andato per una malattia feroce. Antonio il mite, che non sapeva dire mai di "no"

Voglio scrivere qualche parola in nome di un amico morto. So che non esisterebbero motivi per farne un pezzo giornalistico. Antonio, un nome comune, molto comune, Colombo, un cognome comune, molto comune, era una persona comune figlio di una Brianza comune. Strappato da una malattia strana, rapida, feroce, in un’età comunque accettabile. Settant’anni, un’ età in cui si è soliti pensare che sì, era ancora giovane, ma insomma…

Perché allora scriverne?

È che pensando e ripensando ai cinquant’anni ormai e più di amicizia, ci si accorge che Antonio non aveva mai detto una parola cattiva, mai. Su nessuno o contro nessuno. Sì lo so, son quelle cose che si dicono sempre quando uno se ne va: le cronache dei giornali locali sono piene di memorie di persone “solari, generose attente e dedite agli altri”, amiche fors’anche degli animali, o delle piante, o di qualsiasi altro motivo valga a tentare di nobilitare questa nostra esistenza terrena.

Ma è che, pensando e ripensando, e cinquant’anni sono tanti, la memoria non riesce a scovare una che sia una occasione in cui aver sentito una sua cattiveria, o una fuga di accenni malevoli, o un sorrisetto denigratorio o meschino.

Diciamolo: chi di noi non si è mai concesso un “sì quello lì però… ma guarda un po’ quel… quella razza di…”. Forse Dio nella sua promessa ad Abramo ci avrebbe azzeccato di più, statisticamente parlando intendo, se invece delle stelle avesse contato: “la tua progenie sarà più numerosa delle cattiverie che dirai nel corso della tua vita”. Sì, forse ci avrebbe azzeccato di più. Ma, Antonio?

Negli ultimi anni non erano state poche le occasioni per incontrarci, complice l’organizzazione di un meeting per sostenere l’opera, In-Presa a Carate Brianza, in cui Antonio dava il suo tempo, la sua amicizia, la sua pazienza, la sua discrezione e la sua competenza ai giovani ritenuti tra i più difficili, quelli che nessuna scuola riesce a trattenere. Piccoli meccani in legno per sviluppare in loro le prime elementari cognizioni di fisica e meccanica (sì, perché Antonio era ingegnere, ma chi se n’era mai accorto? Per tutti era Tugnett, il piccolo Antonio. O l’Antonio piccolo, vedete voi, come suona meglio).

Nei giorni concitati e nervosi del meeting, nei giorni concitati dei mille problemi e dei mille preparativi, delle mille idee fastidiose di chi sapeva sempre come fare a cambiare in meglio, Antonio, che seguiva le cucine, gli approvvigionamenti, lo stoccaggio il sistema delle casse e i turni di servizio, non diceva mai no a nessuna proposta: “Antonio, si potrebbe fare una mostra con i lavoretti fatti dai tuoi ragazzi? Antonio non si potrebbe introdurre un nuovo software per la gestione delle casse? Antonio perché non cambiamo i percorsi per i servizi ai tavoli? Antonio, introduciamo un nuovo menù?”.

Antonio ti guardava, ascoltava, si prendeva qualche attimo di silenzio, con una strana titubanza, che a te per una frazione faceva venire persino il dubbio che avesse capito. Ma poi vedevi e capivi che fra sé e sé stava misurando se quello che andavi proponendo avesse qualche possibilità di esistere. E se, esistendo, non andasse ad ostacolo dell’architettura generale. Non giudicava la proposta, non soppesava da chi arrivasse. Ne vagliava soltanto la/le possibilità di esistenza. Era l’atteggiamento semplice, elementare, quasi indifeso, dell’essere che si apre all’essere. Desiderando dire quel sì, che potendo, fa essere le cose.

Per questo, adesso che non è più qui con noi, e ci manca tanto, pensando e ripensando, nel silenzio che ci riempie, ci accorgiamo che Antonio, Antonio il mite, il Tugnett, è trascorso tra noi come un mistero.

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