Tu sol – pensando – o ideal, sei vero

Di Luigi Amicone
03 Marzo 2005
Una vita sempre in lotta, sempre a riaffermare il verso di quel mangiapreti di Carducci. Ecco chi era don Giussani, il nostro Dante
Luigi Giussani
Luigi Giussani (foto Ansa)

Per i particolari ci sarà tempo. Di qui all’eternità, ce ne sarà di tempo per stupire dell’originalità del carisma di don Giussani. Ce ne sarà per vedere ingigantire la sua figura di «difensore della ragione dell’uomo», come ha proclamato di lui papa Giovanni Paolo II nella sua lettera autografa del 22 febbraio 2005. È andata proprio così. Fosse gente che passava da casa sua o in cui egli si imbatteva per strada, in tram, nelle aule e corridoi di scuole, uffici, università, in una sperduta parrocchietta d’Italia o su in cima al monte Koya dei monaci buddisti, Luigi Giussani c’era. E c’era per rendere ragione della speranza che era in lui, Gesù Cristo. Una speranza fissata in uno sguardo così penetrato di umanità e di fraternità, che Giussani è arrivato fino al punto di chiedere perdono ai fratelli ebrei per aver riconosciuto in Gesù il Messia. Tutto questo è durato almeno cinquant’anni.

Ci sarà tempo, molto tempo, anche prima di quello eterno, perché le cose dell’altro mondo che Giussani ha detto e testimoniato al popolo e perciò a ciascuna delle migliaia e migliaia di persone in cui si è imbattuto, siano compulsate, studiate e mandate a memoria come il poema dantesco. Perché è un Dante, Giussani. Non c’è dubbio. È l’Alighieri della condizione umana in rapporto al Destino. Aveva proprio ragione lui, «io vedo quello che vedete voi, ma vedo di più di quello che vedete voi». Lo capite già qui, a pagina 17, leggendolo e rileggendolo insieme all’intervista che ci concesse nel 1997. Perché la partenza di Giussani non è mai stata la religione, ma l’uomo, l’uomo intero, l’uomo come vis appetitiva, l’uomo come “capacità di Dio”. Questa passione formidabile, Giussani ce l’ha avuta scavata dentro la carne, e ne è stato portabandiera nell’epoca in cui Sartre (il povero Jean-Paul, così libero pensatore che durante un viaggio aereo si trovò a fianco il prete Giussani e per disdegno della sua tonaca chiese e ottenne di cambiare posto) aveva decretato l’inutilità di questa passione (e il mondo lo ha preso tremendamente sul serio). Incalzava Giuss, «no, non si può conoscere Cristo se non si ha passione per l’uomo». Basti pensare al movimento di persone e opere che ha suscitato nel mondo, le reazioni che ha suscitato la sua scomparsa, il popolo che era al suo funerale. Quel bambino preso per mano alle prime stelle del mattino ne ha fatta di strada sotto il cielo! Quel bambino a cui la mamma diceva «come è bello il mondo e come è grande Dio». Quell’uomo a cui la Violaine di Claudel diceva «come è grande il mondo e come siamo soli noi».

L’Annuncio a Maria, forse il suo testo preferito. Il dramma dell’amore, il dramma dell’Ideale. E «Tu sol pensando o ideal, sei vero», ripeteva spesso il Giuss, citando il verso di quel mangiapreti di Giosue Carducci. L’amore. Per Giuss erano le sentinelle medievali di Assisi e i cori dell’Armata Rossa di struggente malinconia. Ricordi, Giuss, era quella cena e ballo in quella trattoria e, ti ricordi?, «come sono belle le cose che fanno ridere e piangere insieme!». Era Leopardi che cantava il «mistero etterno dell’esser nostro». «Che fai tu luna in ciel, dimmi, che fai? Ed io, che sono? Così meco ragiono». E cosa consigliavi a un prete, tu Giuss, per essere “più prete”? Di salire sugli autobus, innamorarsi di una donna, di essere uomo tra gli altri uomini.

L’essere, la meraviglia dell’essere, era per Giuss questione di vita o di morte. Non nell’iperuranio di categorie filosofiche, ma nell’aut aut della ragione che «nella mendicanza al Mistero che fa tutte le cose» deve affermare il motivo per scendere giù dal letto ogni mattina. Per partire, e per ripartire (come quel missionario di cui ci raccontasti, colto da una tempesta sul Rio delle Amazzoni, rimasto aggrappato a un albero, in balia delle correnti, per giorni e notti, mezzo morto per lo spavento, che a un certo punto ti disse mentre lo “guardavi parlare”, «capisci fratello perché ho i capelli mezzi neri e mezzi bianchi?». E perché si prendono certi rischi, certi uomini? «Per portare Cristo a una minuscola tribù sperduta nel cuore dell’Amazzonia»).

«Come fanno le cose a essere?» lo hanno continuato sentir stupire negli ultimi giorni della sua vita. Poi, qualche giorno prima di addormentarsi, perché il dolore fosse più lieve «e il suo amore infinito» come dice la bella canzone di Claudio Chieffo, volle che gli si cantasse Noi non sappiamo chi era, quella che sembra uscita da un vecchio film western e che dice in maniera semplice e piana, perché anche un bambino lo capisca «ora sappiamo chi era, ora sappiamo chi fu».

Sempre in lotta, sempre ad affermare, sempre a chiedere perdono, sempre a perdonare. Ecco chi era don Luigi Giussani – come disse a conclusione di un suo intervento al Meting di Rimini – un «Vi auguro di non essere mai tranquilli!». Lui, il Giuss, il Dante del ventesimo secolo che ha ricevuto da Dio il carisma («ovvero un dono fatto a lui a vantaggio degli altri», secondo le parole del cardinale Giacomo Biffi, Avvenire, 23 febbraio, e «con la novità che portava trovava naturalmente difficoltà di collocamento dentro la Chiesa», Joseph Ratzinger, nell’omelia alle esequie in Duomo, Milano, 24 febbraio) di fare della sua vita manifestazione persuasiva e gloriosa di ciò che lo stesso Giussani diceva essere il tema dominante de L’Annuncio a Maria («il nostro movimento è nato su questo testo»). «L’amore è generatore dell’umano secondo la sua dimensione totale, vale a dire l’amore è generatore della storia della persona in quanto generazione di popolo». «Non l’amore come espressione della propria voglia; non come reattività, non come “tenerume”». «L’amore è: essere per, essere per l’Ideale, essere per il disegno totale, dove la bellezza e la giustizia sono salve».

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