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Nella stazione della città i treni viaggiano veloci. Li chiamano “i draghi di ferro”, per via di quel fumo denso che sembra avvolgerli e perché, come delle fiere selvagge, tagliano con i loro musi di ferro la terra e il deserto. Nella stazione, di ferro pure quella, c’è un groviglio di persone, valigie, persino abitazioni. Uomini in doppiopetto che corrono al lavoro, donne bellissime, occidentali, africane, dai tratti esotici e dai lineamenti sfuggenti. Ci sono le carrozze e le sale d’aspetto di prima classe e, in fondo, nascoste vicino al deposito dei treni, le favelas dei disperati, tuguri di cartone, con il filo spinato a chiudere mozziconi di porte.
È lo scenario, ricchissimo di dettagli e poesia, di un film splendido e terribile che racconta una storia piena di contraddizioni, tutta ambientata all’interno di una stazione in una città lontana. Una stazione che brulica di gente che lavora e altra che tira a campare. Mondi opposti e lontani, che fanno a pugni. Modernità e antico ...
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