Tra grillini, lotte fratricide nel Pd e scontri fra toghe e politica, resta solo Napolitano

Di Luigi Amicone
16 Marzo 2013
Come se non bastassero la recessione e un voto dall’esito perverso, si è riacceso l’eterno scontro tra toghe e politica. Una corsa verso il baratro

Nebbia e inferno. Mica male come acquerello primaverile. Specie se l’autore dello schizzo della stagione incipiente si chiama Giorgio Napolitano. «Si fa fatica nella nebbia», risponde a chi lo qualifica di «faro». «Il prossimo sarà un mese d’inferno», rincara il suo staff al pensiero del lavoraccio che costerà mettere insieme un “governo del Presidente”. Governo? Quale governo? La Costituzione esclude che l’inquilino del Quirinale possa prendere alloggio anche a Palazzo Chigi. E poi, stando al tweet di Pasquale Cascella, consigliere del Colle, in risposta al «Napolitano resti, almeno per un po’» di Ferruccio De Bortoli, «la questione è chiusa». Fonti di Tempi che non solo hanno accesso alle stanze quirinalizie, ma parlano con Napolitano, fanno però notare che un esecutivo di “alto profilo istituzionale” sotto le ali del presidente non rappresenterebbe di per sé un vulnus alla Carta costituzionale.

ASSOLUTA EMERGENZA. Non solo. «Vogliamo provare a elencare le circostanze di assoluta emergenza in cui si trova il paese?». Lo sbarco in Parlamento di un fiume di eletti che rifiutano di istituzionalizzarsi e seguitano a rappresentare la protesta antipartiti negando ogni possibilità di fiducia a qualsiasi maggioranza. Il cul de sac in cui si è messo l’aspirante premier Pier Luigi Bersani nella sua ostinata rincorsa al ribellismo grillino. La tragedia dei processi che inseguono il Cavaliere, i giudici che concedono 24 ore di legittimo impedimento e il braccio di ferro che subito riprende (ora con la minaccia di un Aventino da parte della coalizione che rappresenta quasi dieci milioni di italiani). Insomma, siccome una prosecuzione del governo Monti è impossibile (perché Monti non è più un tecnico sopra le parti, ma è un leader di partito), Napolitano sarebbe costretto, qualora l’intero arco delle forze costituzionali glielo chiedesse, ad accettare una riconferma al Quirinale («almeno per un po’») e ad assumersi il fardello di provare ad arginare l’eruzione vulcanica dell’antipolitica che sta coprendo di cortine fumogene al veleno e cenere la Pompei italiana.

GOVERNO DI SCOPO. Si tratterebbe di tenere a battesimo un governo costituito da personalità fuori dai partiti ma (naturalmente) sostenuto da questi. Un “governo di scopo” o di “solidarietà nazionale”, per fare poche ma importanti cose: tenere sotto controllo i conti e il debito pubblici, mantenere gli impegni con l’Europa, approvare una nuova legge elettorale. Poi, di nuovo tutti al voto. In autunno. O al massimo entro la primavera 2014. Per un’impresa del genere occorre uno che sappia guidare, e bene, anche nella spessa nebbia di poteri dello Stato (partiti, magistratura, alti burocrati) che sembrano muoversi a testuggine l’uno contro l’altro armati. C’è bisogno di una personalità che per la sua riconosciuta autorità e autorevolezza si faccia ascoltare da tutte le parti in incandescenza. Uno che ponga mano alla fase construens e sia finalmente in grado di piantare un paletto di acciaio ben temprato nell’infuocato e rabbioso magma italiano. Appunto. Occorre l’uomo che il prossimo 29 giugno compirà 88 anni. O non ha fatto caso a quel che ribolle sotto il vulcano?

INCUBO FISCALE. Il 15 marzo si insedia il nuovo parlamento. E si eleggono i presidenti di Camera e Senato. Il 19 partono le consultazioni del Quirinale. Chi sarà il prescelto? Normale che l’incarico esplorativo sia affidato a Bersani, candidato della coalizione vincente. Meno normale che il leader che ha riconosciuto il pareggio con Silvio Berlusconi come una sconfitta, abbia escluso a priori l’ipotesi di coinvolgere nell’esplorazione la coalizione perdente per soli 0,4 punti percentuali alla Camera, 0,9 in Senato; con 9.922.850 voti alla Camera, 9.405.883 al Senato. Dopo i primi contatti tra emissari del “Pdmenoelle” – come Grillo chiama i democratici – e dei Cinque Stelle, l’autoprofezia dei bersaniani canta in giro che «c’è un accordo sugli uffici di presidenza» e, forse, anche sulle presidenze, nonostante il comico continui a ricoprire di contumelie l’intera comunità politica parlamentare. M5S si scilipotizzerà? Difficile. Comunque accadrà, da presidente a fine mandato, Napolitano non potrà sciogliere le Camere. Per l’eventuale scioglimento bisognerà attendere l’elezione del nuovo capo dello Stato (15 aprile) più un altro mese, 15 maggio, termine di scadenza ufficiale del mandato di “Re Giorgio”. Tutto ciò fa sì che, nell’eventualità non improbabile che Bersani fallisse, le elezioni anticipate si potrebbero tenere in una data compresa tra gli inizi e la fine di luglio (per legge, dal giorno di scioglimento delle Camere devono trascorrere almeno 45 giorni e non oltre 70). Ora, a parte il fatto che è difficile immaginare elezioni nel periodo balneare, il solo promemoria del torrido giugno-luglio fiscale che aspetta gli italiani, sconsiglia vivamente il ritorno alle urne a breve. L’incubo fiscale estivo prevede infatti l’accumularsi delle scadenze di Irpef, Imu, Tares e, dal primo luglio, l’aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento. Un salasso che dovrebbe costare agli italiani qualcosa come 31 miliardi di euro in una situazione in cui gli ultimi dati Eurispes dicono che già ora tre famiglie su cinque sono in difficoltà. Cosa pensate possa accadere se si torna al voto in piena estate?

LA FOLLE CORSA. Non siamo ancora sull’orlo del precipizio. Ma tutti i conducenti dei diversi convogli che si confrontano nella corsa per dare stabilità e governo al paese, sanno che è lì, a un passo. Sanno che ogni pregiudiziale chiusura al dialogo e alla considerazione dell’insieme dei fattori recessivi che compongono il quadro italiano (la crisi economica e dei partiti, ma anche il cortocircuito della giustizia e il tramonto di una certa “forma Stato”) è un’accelerazione verso il baratro. Vincerà chi frena per ultimo? Nessuno che non veda il crinale oltre il quale si va giù. Tutti. Nessuno escluso. Eppure, la folle corsa verso l’ultimo crinale prosegue.

TUTTI CONTRO TUTTI. Un pezzo di magistratura cerca la morte civile del Cavaliere. Grillo gli fa da sponda. «La fine di Craxi sarebbe la sua fortuna, solidarietà con i magistrati». Berlusconi si difende. I parlamentari Pdl, ovviamente, sostengono a spada tratta il lor capo e rumoreggiano davanti al Tribunale. Napolitano li bacchetta. «L’indipendenza della magistratura non si discute». Il Csm apre pratiche a tutela, ma tace sul modo di interpretare l’indipendenza da parte delle toghe “rivoluzionarie”. Il Pd è diviso e Renzi lancia la sua Opa sulla segreteria. Tutti sparano contro tutti, mentre la febbre da declino si riaccende a ogni stormir di dato su Pil, consumi, declassamento dell’Italia da parte delle agenzie di rating. Insomma, un caos. Al punto che nel quadro di “nebbia e inferno” tinteggiato dal Quirinale, Grillo sembra la variabile meno sorprendente. Sorprendenti sono piuttosto Bersani e il Pd vacillante davanti alla prosopopea grillina. A meno che la testardaggine dell’uomo di Bettola nel voler sposare Grillo, «o nessuno», dipenda dalle informazioni che Bersani ha sulle diverse strade che stanno prendendo inchieste sospese tra Napoli, Siena e Milano.

FAR FUORI BERLUSCONI. Niente che non sia comprensibile. Ma da un leader ti aspetteresti un po’ di coraggio. Possibile che gli manchi la lealtà di riconoscere almeno l’evidente? Per esempio, nella relazione annuale sull’amministrazione della giustizia nel distretto di Milano, il 26 gennaio scorso il presidente della Corte di appello Giovanni Canzio ha ammesso che nell’anno 2012 la durata media dei procedimenti in appello ha raggiunto il record di 28,3 mesi. E nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario, il primo presidente della Cassazione ha fornito il dato di 900 giorni di media per un processo di appello in sede penale. Com’è che solo con Berlusconi i processi ritrovano una durata più che ragionevole? Altro esempio. In questi giorni si sta celebrando a Milano l’appello per il caso Mediaset. La sentenza di primo grado (4 anni di carcere e 5 di interdizione dai pubblici uffici) risale al 26 ottobre scorso. Sono trascorsi 5 mesi e 150 giorni dal primo grado all’appello. Un prodigio rispetto ai 28,5 mesi di rito ambrosiano e ai 900 giorni di media nazionale. In Campania, intanto, un presunto corrotto nel 2006 sente la necessità di vuotare il sacco nel 2013. Sette anni dopo. È legittimo che il pluriprocessato sospetti che lo vogliano arrestare a Napoli, condannarlo a Milano e poi, rapidissimamente, dichiararlo interdetto da ogni forma di partecipazione alla vita politica via Cassazione?

RESTA SOLO NAPOLITANO. Ma cosa ci guadagna il paese a lasciare il leader di un’opposizione con 10 milioni di elettori nell’accerchiamento giudiziario? Con Berlusconi sprezzato da Bersani e inseguito dalla geometrica potenza delle inchieste, il Pdl non ha scelta. Deve resistere e barricarsi. Fu così che non restò altro che il presidente. L’unica istituzione che, nella generale corsa verso lo strapiombo, fa dire a Draghi (e ai mercati): «Tranquilli, l’Italia ha un pilota automatico».

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