Totò Cuffaro a Tempi: «Anche noi detenuti, come ci ha detto Ratzinger, viviamo finché vive la speranza»
Dice la ballata: «E il lancinante rimorso e i sudori di sangue, nessuno li conosce al pari di me: perché colui che vive più di una vita deve morire anche più di una morte». Ed io vorrei aggiungere che nella ballata del carcere di Rebibbia, per dirla con Gabriel García Márquez, ho «imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi». Il carcere è simile al Fenrir, che è un feroce ed enorme lupo partorito dal mito scandinavo, famoso perché ostile e nemico del popolo e al popolo. È creatura cattiva e portatore di disgrazie. Sempre tenuto incatenato, si serve però delle sue stesse catene per palesare la sua forza e la sua ferocia. Quando si tenta di imbrigliarlo, lui, Fenrir il carcere, azzanna i suoi padroni. Rabbioso, l’orrida bestia, ulula e ringhia, e con la bava che esce dalla sua bocca si alimenta un lago, il lago “Attesa”; e in attesa la bestia e il suo padrone tengono sempre le loro vittime.
I detenuti, come il Fenrir, sono carichi di rabbia, ma al contrario del Fenrir sono anche carichi di speranza, non coltivano astio ma cercano amore. Si sentono emarginati dalla società e sentono che crolla loro addosso il mondo, ma lottano per liberarsi da ogni catena, lottano per vivere, sanno di avere solo una vita. La battaglia è difficile, faticosa, cruda, ma non hanno alternativa, devono combatterla. Lottare per noi detenuti vuol dire scegliere, difendere la dignità, alimentare la speranza, non consentire a Fenrir di estinguerci. Quando un giorno si riusciranno a spezzare le catene, tutte la catene, anche quelle di Fenrir si scioglieranno e Fenrir senza le sue catene morirà.
Allora, solo allora finirà il carcere luogo per emarginare i cattivi, lontani dai buoni, e potrà rinascere come un luogo dove vive, piange, soffre, prega e spera un pezzo della nostra società. Allora sarà più libero il popolo e libero e certamente più buono lo Stato. Abbiamo il dovere di sperarci e di attendercelo, perché come ci ha detto Ratzinger, «l’uomo vive finché vive la speranza, la sua statura si definisce da cosa attende».
Totò Cuffaro, detenuto in Rebibbia, Roma
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