
Torna Prdoi, torna il dossettismo
L’arrivo di Prodi alla guida dell’Unione ha conferito sistematicità e strategia all’assedio dell’Unione verso la Casa delle libertà. Prodi sta dispiegando un lucido disegno conservatore, volto a difendere lo stato di cose presente contro ogni volontà o velleità di cambiare e migliorare la condizione atttuale di un paese in declino. L’hardware di cultura politica è fornito dall’impasto tra primo e ultimo dossettismo. Per quanto riguarda i contenuti della Costituzione e la sua immodificabilità basterà solo ricordare che per Giuseppe Dossetti, uno dei quattro “professorini” della Cattolica di Milano – gli altri erano La Pira, Lazzati, Fanfani – la Costituzione deve essere non solo definizione di procedure – quali tendono ad essere le Costituzioni liberali – ma anche indicazione etica e programma: la Costituzione programmatica, appunto. Inevitabile, a questo punto, il cortocircuito tra valori e istituzioni storicamente determinate. Modificare queste significa sconfessare quelli.
In realtà, il primo Dossetti era favorevole alla Repubblica presidenziale, intuendo con largo anticipo la paralisi dei governi, che sarebbe conseguita a un primato abnorme del Parlamento, per di più diviso in due camere con competenze speculari. Ma l’ultimo Dossetti aveva promosso nel 1994, due anni prima di morire, i Comitati per la difesa della Costituzione contro ogni ipotesi di modifica della medesima, vuoi per via bicamerale vuoi a maggioranza qualificata. Sulla collocazione internazionale dell’Italia, la categoria fondativa è quella di “pace”, che ha avuto lungo seguito nella Dc, sia in quella di sinistra che in quella dorotea. In filigrana si leggono il culto dello status quo, avvolto da cultura antianglosassone e da antiamericanismo, la visione dell’Europa come “Eurabia”, il disinteresse alla questione delle libertà e dei diritti umani nell’area mediterranea e medio orientale.
Ma è sulle questioni economico-sociali che la concezione dossettiana segna fortemente la Weltanschauung prodiana. Il pensiero corporativo dei professorini, in particolare di Fanfani, aveva portato il piccolo gruppo a proporre, nella discussione della Costituente, una sorta di terza camera corporativa, in rappresentanza delle professioni e del lavoro. Sarà poi depotenziata a Cnel. Ma intanto la rappresentanza liberale degli interessi di ciascun cittadino titolare di un voto veniva sopraffatta da quella di rappresentanze collettive e corporative. L’intera storia dei governi democristiani, dopo De Gasperi, è stata segnata da questa visione generale. Il governo della società italiana, formalmente riconosciuto all’esecutivo, è stato sempre di più affidato alle potenti corporazioni degli interessi densi: Confindustria, sindacati, ordini professionali, Pubblica amministrazione. I loro patti scellerati hanno portato il paese al declino, il costo delle loro transazioni reciproche è stato scaricato sul bilancio pubblico e sui cittadini singoli. C’è un’evidente corrispondenza biunivoca tra un assetto costituzionale in cui l’esecutivo è debole e una configurazione socio-economica organizzata attorno a poteri forti. E c’è coerenza nella dottrina politica prodiana tra il rifiuto del rafforzamento dell’esecutivo e la difesa degli interessi forti.
dopo d’alema, fassino
Questo dossettismo di ritorno esercita una forte egemonia sull’intera Unione. La ragione è che il cosiddetto riformismo dei Ds è un guscio vuoto. Prima del 1989 essere riformisti significava essere socialdemocratici: l’eguaglianza era il valore condiviso con i comunisti, ma la via per realizzarla era appunto democratica. Dopo il 1989 essere riformisti significa essere liberali: porre al centro la ricca costellazione delle libertà dell’individuo/persona da difendere contro ogni intrusione dello Stato e delle potenze sociali. La conseguenza di questo cambio di paradigma è un programma di riforme volte a liberare la creatività individuale e sociale in ogni campo: la politica non dirige, ma accompagna la fioritura umana. I riformisti Ds questa sponda non l’hanno ancora raggiunta. Questo ritardo culturale li espone alla ghigliottina del neo-dossettismo prodiano e del neo-comunismo bertinottiano. La testa di D’Alema è già rotolata via, ora tocca Fassino.
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