
Torna a splendere a Monza il capolavoro su Teodolinda, regina longobarda che convertì la «nazione nefandissima»

Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – «Fervidissima maestà di fede, famosa per le sue opere, sincera per umiltà, contrita nella preghiera, dedita alla generosità, legata all’obbligo della carità, provvida nella saggezza, ricca di misericordia, illustre per onestà, ricolma di tutte le virtù, soave nell’oratoria, acuta di ingegno, abbondante nel donare, giusta nel giudicare, misericordiosa nel parlare, amicissima di Cristo, sostenitrice del gregge cattolico, perenne nemica del diavolo, antagonista totale della sua sostanza eretica» (Sisebuto, re dei visigoti di Spagna, in una lettera al figlio di Teodolinda)
Dopo un restauro durato sette anni, dal 16 ottobre al Duomo di Monza è aperta di nuovo al pubblico la cappella dedicata a Teodolinda. Un affresco a spirale risalente al XV secolo, attribuito ai fratelli Zavattari, e restituito agli antichi colori ricorda la storia della regina barbara che convertì al cattolicesimo la «nazione nefandissima» (così definita da papa Gregorio I) di quei longobardi scesi dalle terre germaniche che regnarono sulla popolazione goto-romana fra il 500 e l’800 dopo Cristo.
La storia di Teodolinda è considerata oggi secondaria, ma non lo fu per i contemporanei, se a lei la tradizione storiografica e la cultura popolare attribuirono un’importanza nell’opera di pacificazione nell’Italia dominata dai barbari pagani e ariani, insieme a Gregorio Magno, un papa certamente non secondario nella storia della Chiesa e dell’Occidente.
Quando si parla di radici cristiane dell’Europa, spesso qualche politico distratto fa riferimento a un astratta concezione “morale” che dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente si sarebbe quasi autonomamente diffusa in una Europa dominata da popoli che dopo una razzia e uno sterminio non disdegnavano di brindare con i teschi dei loro nemici. Si dà per scontato che popoli completamente estranei l’uno all’altro, con lingue e istituzioni differenti, si “umanizzassero” abbracciando una verità rivelata molti secoli prima e secondo la quale Dio non solo si era incarnato in una terra dall’altra parte del Mediterraneo, ma affermava che il nemico andasse amato e non sterminato e la sua testa usata come boccale ai banchetti trionfali.
Lo “scudo del popolo”
Nell’Europa di oggi, altre vicende sono considerate più importanti rispetto all’evangelizzazione cristiana dei barbari, e tanto più alla conversione, frutto anche di scelte politiche, di un popolo che per quasi trecento anni detenne il potere nell’Italia post-imperiale. Storie come quella di Teodolinda, di santi, re e regine che con i loro atti determinarono la diffusione del cristianesimo e dunque il futuro del continente – secondo gli storiografi dell’epoca – si possono identificare forse con quelle radici storiche dell’Europa, dalle quali seguirono lo sviluppo politico, culturale e artistico del continente e dell’umanità.
Le immagini nella cappella degli Zavattari narrano in quarantacinque scene la vita della regina Teodolinda (il cui nome significa “scudo del popolo”), dal suo primo matrimonio con il re Autari fino alla morte. Per disegnare la vita di quella che venne definita dai contemporanei come un’instancabile pacificatrice, che convertì e integrò il popolo conquistatore, integrandolo ai goti-romani delle terre conquistate, l’iconografia dell’epoca trae ispirazione dalle vicende narrate in Historiae Langobardorum di Paolo Diacono, storiografo e maestro alla corte di Carlo Magno. Teodolinda, principessa bavarese, nipote del re longobardo Whaco, della stirpe di Leto, allevata nella famiglia cattolica di Gariboldo, re dei Bavari, viene ritratta da Diacono, attorno all’800, come un modello per i regnanti occidentali.
[pubblicita_articolo allineam=”destra”]I popoli del nord erano completamente alieni al concetto di “persona” sviluppato nel II secolo dal vescovo Tertulliano e arrivato intatto almeno fino ai giorni nostri. Se alcuni di loro si erano convertiti nei decenni precedenti, non così i longobardi. La situazione politica e morale della classe dirigente pagana e ariana, all’arrivo di Teodolinda, può essere sintetizzata con un aneddoto non del tutto leggendario: la più nota regina che l’aveva preceduta, Rosmunda, moglie del Re Alboino, aveva ordito l’assassinio del marito dopo essere stata costretta dal consorte ubriaco a bere vino dal cranio del padre.
Teodolinda fu sposa di Autari per un anno. Il re che aveva allargato i confini del regno sino a Reggio Calabria (non oltre la spiaggia: i longobardi avevano paura dell’acqua) morì avvelenato per una non insolita trama di corte e papa Gregorio I, che per convincere i barbari sapeva di non potere usare argomenti fini, ne approfittò per dichiarare che Dio l’aveva punito per aver bandito il battesimo cattolico. Narra Diacono che dopo la morte del marito Teodolinda, forte della sua discendenza letingia, poté conservare la regalità e scegliere come secondo marito il duca di Torino, Agilulfo, ariano e fedele alleato di Autari.
Il carteggio con Gregorio Magno
Quel matrimonio fu un bene per la Chiesa e per il popolo. Diacono racconta come dall’inizio del 700, sotto il governo di Agilulfo e poi sotto la reggenza di Teodolinda, in Italia si visse un quarto di secolo di buon governo, in pace e sicurezza. Fiorirono le arti e sorsero nuove chiese e primi nuclei di importanti monasteri. Il patrimonio della chiesa rubato dai longobardi fu restituito dalla stessa Teodolinda, che insieme al marito aggiunse nuove importanti donazioni, tra cui il terreno che doveva servire al primo nucleo dell’Abbazia di Bobbio.
Questi atti, riportati da Diacono, sono descritti anche nell’ampio carteggio tenuto da papa Gregorio Magno con la regina longobarda fino alla sua morte. Rifacendosi a quelle lettere, nel 2008, papa Benedetto XVI aveva descritto il rapporto fra il pontefice e la regina longobarda come permeato da «amicizia» e «stima» reciproca. E non si può dire che per il Papa fosse dovuto semplicemente all’amore paterno con cui redasse per la sua edificazione una delle sue opere più importanti, I dialoghi.
Sia politicamente che “pastoralmente”, per Gregorio Magno la fede e le opere della regina longobarda, che definiva «figlia dilettissima» in una lettera al vescovo di Milano Costanzo, difendendola dai sospetti clericali e adducendo a «uomini malvagi» la difesa dello scisma tricapitolino, erano fondamentali. Anche per l’unità della Chiesa. All’epoca di Gregorio Magno e Teodolinda.
Foto Museo e tesoro del Duomo di Monza/Piero Pozzi
[pubblicita_articolo_piede]
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!