
«Che terribile errore usare il referendum per colpire l’avversario politico»

«Un conglomerato referendario più misto di un fritto». Questa è l’efficace sintesi offerta da Andrea Venanzoni sulle colonne di Tempi a proposito dell’esito dei referendum. Sintomo di una politica senza bussola, presuntuosa però di avere la ragione dalla propria parte, sempre e comunque. Un vizietto, del resto, ben radicato nella sinistra. Eppure, ancora una volta, ciò che è emerso è lo scollamento più totale di quella parte politica – compresa la Cgil, ça va sans dire – rispetto alla realtà. Questo fa ancora più rumore se pensiamo che dall’altra parte non si stagliano certo Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi, così per dire. Ne parliamo con Alessandro Sterpa che insegna Diritto costituzionale all’Università della Tuscia.
Professore, in un articolo uscito su Formiche, lei definisce “bambinesco” un certo modo di fare politica, che vuole utilizzare il voto, qualunque esso sia, come un sondaggio permanente anziché ragionare in termini qualitativi di proposta politica.
I partiti sono talmente schiacciati sulla ricerca isterica del consenso quotidiano che sfruttano a questo fine anche le consultazioni referendarie, che invece servirebbero ad accogliere o rigettate modifiche di specifiche norme legislative. Così il “quesito” vero non è quello scritto sulla scheda – che peraltro pochissimi leggono – ma quello dettato dalla narrazione che i promotori o i contrari decidono di costruire. Le schede diventano solo un pretesto da sfruttare anche a discapito dell’impianto costituzionale e così gli elettori sono illusi di poter fare qualcosa che invece non è nelle capacità del referendum (far cadere un governo o legittimare una alternativa). Così si distoglie quel poco di energia partecipativa di chi vuole capire davvero i quesiti e si aumenta la già diffusa percezione che il voto – ogni voto – sia solo una competizione tra pezzi di élite poco rappresentativi e concentrati a farsi la guerra per il potere. Tutto il contrario di quello che pensavano i costituenti: rendere il referendum un mezzo di dialettica tra legislatore e comunità; non a caso spesso partiti alleati in Parlamento si sono serenamente divisi sui quesiti abrogativi. Capiamoci, i referendum hanno sempre effetti politici, ma sui temi interessati, e non possono creare un complessivo programma di governo e una offerta elettorale di coalizione.
Era proprio necessario, secondo lei, mettere insieme cinque quesiti su temi così differenti? E poi: possibile che non venga in mente, come ha detto l’altro giorno Gaetano Quagliariello, di scrivere in maniera meno astrusa i quesiti stessi? Anche questo è un sintomo dello scollamento tra politica e realtà.
I quesiti, per la funzione che è assegnata al referendum abrogativo, non possono che essere formalmente complessi perché intervengono su norme magari più volte modificate anche dalle decisioni della Corte costituzionale. Non è neppure sempre facile definire il titolo della scheda. Il punto è che questo tipo di quesiti non preoccupava quando i partiti, i media, l’accademia e i tanti soggetti della vita civile svolgevano un importante ruolo di “chiarificazione” e di confronto in una società con elettori mediamente interessati e molto politicizzati. Ora il problema è che i quesiti – complessi quanto prima – circolano senza questa scorta di supporto civico. Inoltre la realtà è molto più complessa e mutevole di trent’anni fa e se la stessa norma di legge approvata ex novo da Parlamento e governo fatica a cogliere le esigenze regolatorie, figuriamoci la difficoltà a farlo per un referendum che può solamente abrogare regole già in vigore e che per passare dalle firme al voto impiega un anno. La crisi dei referendum è parente della crisi della rappresentanza. In tutto questo è più facile trasformarlo in una forma semplificata di espressione del consenso: il plebiscito. Non si è salvato dall’avvelenamento il referendum costituzionale (la riforma del 2016 e le dimissioni di Matteo Renzi) e non si salva neppure quello abrogativo.
Riccardo Magi, presidente di +Europa e promotore del referendum sulla cittadinanza, ha sostenuto che l’istituto del quorum sia antidemocratico. È così o piuttosto, senza dover scomodare Alexis de Tocqueville o Giovanni Sartori, c’è un’evidente carenza e insipienza di teoria costituzionale e liberaldemocratica?
Riccardo Magi, con il collega Paolo Bonetti e molti altri, ha fatto una delicata battaglia con il quesito sulla cittadinanza, ma abbassare troppo o addirittura togliere il quorum inciderebbe sulla struttura rappresentativa della nostra democrazia. Si rischierebbe che una legge approvata in Parlamento, magari con una scelta innovativa o dopo mesi di confronto e di mediazioni, possa cadere sotto il colpo di pochi milioni di “sì”, rendendo il quadro normativo un campo di battaglia permanente. Mi convince di più l’idea che il referendum sia un utile strumento popolare per colpire con puntualità l’inerzia o l’incapacità del legislatore e che possa svolgere questa funzione con una consapevole e ampia adesione degli elettori e non per l’attivismo di pochi. In alcune democrazie, ad esempio, si fissa un adeguato tetto numerico di voti favorevoli da raggiungere per ottenere un esito positivo creando così una competizione sana nelle forme e utile nel merito.
Senza voler entrare nella discussione del merito dei singoli quesiti, da costituzionalista le pare possibile che ogni volta che si perde una battaglia politica si gridi all’allarme democratico?
Mi pare, nella sua illogicità, coerente con la logica plebiscitaria: creare un’emozione potente come la paura è utile a mobilitare gli elettori contro un politico considerato troppo decisionista o troppo stabilmente al governo. In un paese che per decenni ha preso poche decisioni innovative preferendo tanti compromessi e che sperimenta da poco una sana alternanza, esistono sacche di politica orfane del consociativismo e dei benefici che esso comporta per alcune élite. Élite che, per dirla con Pareto, non accettano l’inevitabile “circolazione”, ossia di poter essere sostituite. La paura, in questo contesto, aiuta quindi a conservare lo status quo. Il dramma è che il sistema degenera proprio quando questo ricambio non avviene e di conseguenza le esigenze di cambiamento si scaricano contro il modello liberaldemocratico, attaccandolo. Vale a maggior ragione oggi la classica lettura di Esopo: gridare “al lupo, al lupo” quando non serve rischia di renderci indifesi qualora servisse davvero. E quello che accade in alcuni Stati, non certo da noi, ci dice che non pochi branchi di lupi affamati circolano in questo momento.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!