Terremoto. Perché abbiamo bisogno di qualcosa che sia “per sempre”

Di Giacomo Rubino
11 Novembre 2016
Le monache in preghiera fra le macerie. Un viaggio di nozze in Croce rossa. E la forza di Rosa, 106 anni. I piccoli miracoli che fermano il trionfo della Rovina
epa05620075 A handout photograph provided by the Italian Fire Brigade shows Italian fire fighters at work to secure the Civic Tower in Norcia, after a 6.5 magnitude earthquake shook central Italy on 30 October, Umbria region, Italy, 06 November 2016. EPA/ITALIAN FIRE BRIGADE / HANDOUT HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Norcia (Pg). Ogni tragedia, come ogni momento felice, ha la sua icona. Un’immagine restituisce alla memoria, alla storia, quell’attimo, quel momento che racchiude gli attimi e i momenti che la memoria di tutti conserveranno. Quegli attimi prima e quegli attimi dopo, che non saranno mai più gli stessi. La tragedia dell’ultimo terremoto che ha devastato il “cratere”, un’area di seicento chilometri quadrati nei monti Sibillini, privato di casa 28 mila persone tra Norcia, Cascia, Fabriano e poi giù verso la costa fino a Fermo, tra Marche, Umbria e Abruzzo, ha la sua icona nell’immagine colta dalle telecamere e che ha fatto subito il giro del mondo domenica 30 ottobre 2016. La piazza di Norcia è un cumulo di macerie fumanti. La facciata della cattedrale come sospesa per miracolo fra le rovine. I muri delle navate sono crollati. Le case intorno distrutte. Al centro della piazza la statua di san Benedetto patrono d’Europa guarda le terre e i cieli dall’alto, i monti dove i monaci costruirono la civiltà del continente cristiano distrutto dai barbari, ma attorno a lui, ancora una volta, come tante altre volte nella storia, le rovine sembrano segnare la vittoria del nulla. Il segno dell’impossibilità a lasciare qualcosa che sia “per sempre”, la vittoria della Rovina sulla Costruzione. Ma attorno al santo dieci monache inginocchiate, ferme, l’abito nero benedettino imbiancato dalla polvere: pregano.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Non sono scappate. Il convento è crollato ma loro sono lì. Ferme, assorte come negli scranni del coro racchiuso attorno all’altare della chiesa. La chiesa non c’è più, il coro non c’è più. Ma ci sono loro, e il santo patrono d’Europa e la gente che aveva lasciato il centro e che le intravede dalle porte delle mura di Norcia. Attimi interminabili, mentre monaci e vigili del fuoco, e uomini e donne del soccorso alpino rispettano quei minuti di silenzio. Poi, con pacata gentilezza, mentre la terra continua tremare, dieci scosse all’ora per tutta la giornata, le aiutano ad alzarsi, le accompagnano alla porta dove è arrivato l’arcivescovo. Lui le abbraccia, e con loro abbraccia la gente che si stringe intorno, i coraggiosi volontari, i funzionari della Protezione civile.

Una giornata interminabile, qui come negli altri 150 comuni del cratere. Una giornata a controllare casa per casa, a cercare con i cani addestrati qualcuno che possa essere rimasto sotto le case pericolanti, e ora crollate, come quattro giorni prima. Due scosse del sesto grado e mezzo in quattro giorni, trentamila scosse più piccole, continue vibrazioni che aprono nuove crepe, allargano le ferite nei muri: non si verificava nulla del genere in Italia dal 1980, terremoto dell’Irpinia. Allora i morti furono più di 3 mila. Ora si cerca e si controlla, sembra un miracolo. Nessuno, nessuno è stato ucciso dai crolli. Sette feriti leggeri. Sembra impossibile. Controllate bene, continuano a ripetere i responsabili dei soccorsi. Nessuno manca all’appello.

E attorno a questo grande miracolo la cronaca racconta tanti altri piccoli e grandi miracoli. Miracoli costruiti dalla capacità di solidarietà degli uomini nei momenti più brutti, dove nel dolore emerge la parte migliore. Tutti i volontari della Croce rossa, delle associazioni di medici, infermieri e psicologi, scout, movimenti religiosi e gruppi laici hanno risposto al muto ma assordante appello, e 28 mila persone senza casa hanno trovato alloggio negli alberghi, nelle case sicure messe a disposizione da chi ha un po’ di spazio, nelle tende e nei container montati vicino alle fattorie, perché non si possono abbandonare gli animali che proprio in questi giorni stanno tornando dagli alpeggi. Il freddo li stroncherebbe.

«Abbiamo l’impossibile»
E poi piccole grandi storie di persone. Alessandra e Carlo, due insegnanti volontari della Croce rossa, si sono sposati a Senigallia il 29 ottobre. Il 30 pomeriggio erano nel campo base della Croce rossa a Camerino, a lavorare nella cucina che fornisce 1.500 pasti al giorno agli sfollati. Gli abiti da matrimonio cambiati nella fiammante divisa che sta dando conforto a tanti, anziani disperati («questa volta non rivedremo la nostra casa»), adulti angosciati dal futuro («cosa sarà del nostro lavoro?»), bambini spaventati: molti non vogliono più entrare in casa, dicono i genitori, e piangono ad ogni scossa. Alessandra e Carlo si stupiscono dello stupore di chi li incontra: «Distribuire un pasto caldo e buono a chi ha perso tutto, vedere gli occhi degli anziani che quasi vergognandosi chiedono una mela, gli occhi impauriti dei bambini che guardano incantati le divise rosse fuoco, e quando porgi loro il piatto li vedi sorridere: vale un viaggio di nozze», raccontano. «Pur non avendo niente abbiamo l’impossibile, la Vita, e la forza di andare avanti».

Come la forza della signora Rosa, 106 (centosei!) anni. Il centro storico del suo paese, Monsampietro Morico, è stato evacuato, lei è stata salvata dal vicino di casa, un omone di origini napoletane, che l’ha presa in braccio come una bambina e l’ha portata fuori dall’abitazione mentre i muri si incrinavano, si piegavano, si spezzavano. Chi non ha fatto una piega, non si è incrinata, non si è spezzata è lei, la signora Rosa, centosei anni e tre terremoti. Ora la sua casa è un albergo ristorante dove si sono riunite una quarantina di persone del paese, ritrovando quel senso di vicinanza e comunità che dà il coraggio tenace giusto. «Io sto bene», dice Rosa. «Non mi manca niente e soprattutto non mi mancano amici e persone care».

Piccole storie, tessere di un mosaico di una grande storia. San Benedetto è ritto lì, in mezzo alla piazza. È il patrono d’Europa, ha visto tanto e tanto risorgere dalle macerie. Ha visto tante e tante ricostruzioni, ha visto le mani dei suoi monaci operare per centinaia di anni e le mani delle sue monache pregare. Ora et labora, e mai come in questi giorni il lavoro è preghiera, e la preghiera è lavoro.

Foto Ansa

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