Te Deum laudamus per la verità decisiva del due

Nel corpo a corpo tra madre e figlio l’evidenza che l’individuo consiste solo dentro un legame. La "lezione della gratitudine" secondo la femminista Terragni

Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola a partire dal 31 dicembre (vai alla pagina degli abbonamenti), che è l’ultimo numero del 2015 e secondo tradizione è dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso. Nel “Te Deum” 2015 Tempi ospita, tra gli altri, i contributi di Antonia Arslan, Sinisa Mihajlovic, Luigi Brugnaro, Marina Terragni, Totò Cuffaro, Gilberto Cavallini, Luigi Negri, Costanza Miriano, Mario Adinolfi, Marina Corradi, Roberto Perrone, Renato Farina.

Marina Terragni è giornalista, scrittrice, blogger, madre, femminista. E anima in pena.

Non sembrerebbe, ma la gratitudine è un sentimento difficile, che richiede una certa forza d’animo. Se si va a vedere l’etimologia, c’è una radice nascosta di passione, di desiderio e di brama che lo arroventa. C’è una lotta. Quando siamo grati a qualcuno vuole dire che chiniamo il capo, che accettiamo docilmente il fatto che molto indipende da noi, che riconosciamo un nostro limite (un bel po’ di quello che io ho, che io so e che io sono mi viene da un altro o da un’altra). C’è l’istinto di ribellarsi, di dire: no, tutto questo me lo sono guadagnato da solo, è farina del mio sacco. Cerchi di dimenticare com’è andata. Incontri quello a cui dovresti essere grato e cambi strada.

Ma se non cambi strada e riesci a stare nella gratitudine la lezione è grande. Per te e per quello o quella a cui devi essere grato, che a sua volta dalla tua gratitudine è intimidito, perché vede in te una capacità di grandezza – sapere dire grazie – che lo rimpicciolisce, e anche lui percepisce il proprio limite. La principale lezione della gratitudine è l’ineliminabilità della relazione e l’inconsistenza dell’uno. L’individuo come trompe-l’œil. Siamo sempre in due, a dire poco. Senza un altro che ci riconosce inesistiamo.

Non mi ricordo quale teologo missionario ha detto che l’Occidente è il terzo mondo delle relazioni. Guardiamo di là, a quei ragazzini che si fanno saltare in aria come niente dimostrandoci che la loro singola vita non conta nulla, c’è solo l’Umma. E poi guardiamo di qua, tanti uni e une asserragliati nell’armatura bellicosa dei diritti. Il due è la soluzione alla diatriba. Il due è il nuovo uno, è l’átomos indivisibile. Il due è la lezione della gratitudine. L’empatia, il legame, l’interdipendenza, i neuroni specchio. La solitudine che è più dolorosa della morte.

Dice la mia amica Mercedes, anestesista rianimatrice, che quasi tutti quando moriamo invochiamo la madre. Penso alla mia grande nonna Luigina, roccia, pioniera breadwinner, terribile badessa, modello. «Màma moeri…», invocava nell’agonia. Come per dire: «Mamma, vieni a prendermi». Torniamo insieme in quel luogo in cui prima inesistevo e poi siamo esistite.

Anche mio padre l’ho visto andare: all’improvviso, in un fulgido pomeriggio d’estate, una vigilia di San Giovanni, il suo onomastico. Eravamo io e lui soli, e ho sentito questa forza che se lo riprendeva, una specie di vortice, come sua madre che mi diceva: «Adès l’è el me», levati di torno ragazza perché adesso è di nuovo mio. Non ho avuto nemmeno la forza della rabbia. Non ho potuto che chinare il capo e piangere.

Quando si va a toccare quel punto, il madre-figlio/a, si tocca il fondamento della civiltà umana e l’origine di tutte le speranze, perché si tocca il punto in cui il due è indistinguibile dall’uno. La distinzione arriva piano piano, siamo animali lenti, ci mettiamo almeno un paio d’anni a sentirci uni e une, forse tre secondo Margaret Mahler. È il tempo che occorre al processo di individuazione-separazione.

Prima di quel tempo crediamo di essere tutt’uno con la donna che ci ha generato. Crediamo proprio di essere lei. È quello, il corpo a corpo tra la madre e il figlio, il luogo in cui è lampante la fittizieria dell’individuo, la fallacia dell’uno, la sua sostanziale inesistenza. È la matrice. Andare a toccare lì può comportare la catastrofe simbolica, perché quello è il tabernacolo della verità decisiva del due.

Il corpo è mio e non è mio
Judith Butler, a cui viene attribuita la maternità delle gender theory, andando avanti a pensare ha detto tante altre cose, per esempio che «il corpo è mio e non è mio», ma qui già non la ascoltava più nessuno. Il corpo è mio e non è mio perché è impigliato in una rete inestricabile di relazioni, al punto che i confini tra me e l’altro si stemperano e si fanno confusi. Quello che faccio a me lo faccio almeno a un altro, verosimilmente ad alcuni altri, se sono fortunato a tanti altri. «Il corpo è mio» è servito a dire «non è tuo», non è dei patriarchi che ne hanno usato a piacimento. E lo si doveva dire. Ma il paradosso è che in fondo a questa strada – il corpo è mio e ne faccio quello che voglio – oggi si intravede il rischio di restituire docilmente ai neo-patriarchi ciò che ci eravamo riprese.

Rifarsi corpi da usare, contenitori a pagamento, materia inerte per un ricco maschio genitore principale, secondo la visione aristotelica fondativa dell’inferiorità naturale delle donne. Ridurre l’unità di quel due a un uno+uno immediatamente divisibile, quando non lo si fa nemmeno ai cuccioli di cane, per i quali si riconosce la necessità di restare vicini alla madre per il tempo necessario. Siamo davvero la specie derelitta? L’esistenza di un mercato in cui tutto questo è fattibile vuole dire che allora si può fare? Che cosa stiamo facendo, quando lo facciamo?

Sono anni che mi faccio queste domande, scrutando in quella sarabanda infernale di carne, sangue, umori, gameti, desideri, sofferenze, soldi, leggi, diritti, tenendo saldamente come primo quel terzo contrattuale che viene chiamato al mondo (come dicono i codici? salvo diritti di terzi). E pregando che la compassione non mi abbandoni, perché spesso mi abbandona. Perciò sono grata alle donne che, avendo cara come me la libertà femminile, sono arrivate a porsi quelle stesse domande, facendomi sentire meno sola.

Foto mamma e neonato da Shutterstock

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