Te Deum laudamus per il piccolo gregge sperduto in Siberia

Di Alfredo Fecondo
03 Gennaio 2016
Canto il mio Te Deum per Zebo, Jana, Elena, Igor… il piccolo granello di senape che Dio semina nella mia vita

siberia

Questo articolo è tratto dal numero di Tempi in edicola a partire dal 31 dicembre (vai alla pagina degli abbonamenti), che è l’ultimo numero del 2015 e secondo tradizione è dedicato ai “Te Deum”, i ringraziamenti per l’anno appena trascorso. Nel “Te Deum” 2015 Tempi ospita, tra gli altri, i contributi di Antonia Arslan, Sinisa Mihajlovic, Luigi Brugnaro, Marina Terragni, Totò Cuffaro, Gilberto Cavallini, Luigi Negri, Costanza Miriano, Mario Adinolfi, Marina Corradi, Roberto Perrone, Renato Farina.

Don Alfredo Fecondo è sacerdote della Fraternità San Carlo Borromeo. Missionario in Siberia dal 1994, segue due parrocchie a Novosibirsk e Berdsk.

Canterò il mio Te Deum per la follia d’amore con cui Lui manda ancora me, povero e insignificante missionario, nel cuore della Siberia a servire alcune piccolissime comunità di cattolici ex deportati sparsi in un raggio di circa 200 chilometri da casa e a costruire una chiesetta nella parrocchia situata vicinissimo a uno dei lager più spietati e temuti dell’epoca sovietica.

[pubblicita_articolo allineam=”destra”]Canterò il mio Te Deum per Galina. Quasi settantenne di un villaggio sperduto. Tumore alle ossa. Le foto di un non lontanissimo passato narrano di una donna russa di rara irresistibile bellezza degna di un Dostoevskij, che, dopo aver subìto una decina di operazioni negli ultimi tempi, mi dice: «Padre, è peccato desiderare di morire?». «O smettere di soffrire?», le chiedo. «Sì, ma allora perché Dio mi fa soffrire? Per purificarmi dei miei tanti peccati?». «Non lo so, è possibile; ma tu chiedilo a Lui, se Lo ami». «Certo che Lo amo, e Lui mi ama. Un tempo no: mia madre era credente, io no. Facevo quel che volevo». «Allora, forse Lui ti chiede di testimoniare questo amore». E lei, d’impeto: «Sììì, è proprio così!». «Padre – riprende – devo dirle che suor Adela mi ha salvato». E io, tra lo stupito e l’ortodosso: «Ma come, una donna può salvare qualcuno?». E lei: «No, non suor Adela, ma Dio attraverso suor Adela mi ha salvato».

Canterò il mio Te Deum per Zebo, una ragazza musulmana di circa vent’anni, non russa, abbandonata alla nascita in un orfanotrofio, con un passato di violenze di ogni tipo, analfabeta ma più furba di un napoletano con le tre carte, che due anni fa ha chiesto e ricevuto il Battesimo. L’altro giorno mi ha detto: «Padre, quando facciamo il presepe in parrocchia?». E io: «Perché chiedi di fare il presepe?». «Quando lei me l’ha proposto l’anno scorso, io mi sentivo come un bambino appena nato. Una pace e una gioia simili non le avevo mai provate. Per me fare il presepe è poter provare la gioia di essere io stessa là con quei pastori e vedere con i miei occhi la Sua nascita. È come se quello che ti era stato promesso l’avessi finalmente ricevuto». «Cosa?». «L’amore! L’amore che ho cercato per tutta la vita, l’amore materno, l’amore infinito». La notte di Natale Zebo riceverà la Prima Comunione.

«Che io ci sono. Che noi ci siamo»
Canterò il mio Te Deum per Galja. Sessantenne figlia di deportati, nata e rimasta nello stesso posto dove la nonna e la mamma Lilia, appena quattordicenne, erano state mandate nel ’42 e dove vado un sabato al mese, lungo strade coperte per circa 200 chilometri di neve e di ghiaccio. Sabato scorso sono uscito di casa alle 7.45 e sono rientrato alle 19.45. Qualche confessione, poi la Messa e infine il pranzo. All’improvviso dico: «Galja, avrei una domanda: per cosa ringrazieresti Dio in quest’ultimo anno?». «Che io ci sono. Che noi ci siamo».

Canto il mio Te Deum per la mia vita, chiamata ormai a sperimentare sempre più, dentro la frammentarietà e l’incompiutezza di rapporti (con giovani che mi parlano di suicidio o studenti che, nel migliore dei casi, non riescono a staccarsi dal telefonino per più di tre minuti), impegni (le enormi difficoltà legate alla costruzione di una chiesetta con quaranta posti a sedere) eccetera, una strana compiutezza.

Canto il mio Te Deum per la richiesta fatta a me in ottobre dal nostro amico prete ortodosso padre Sergej di ospitare in Italia, per motivi di salute, la moglie di un suo amico prete per i tre mesi più freddi dell’inverno siberiano (dicembre, gennaio, febbraio), e per la risposta di tanti amici disposti ad accoglierla: Donatella e Bepi, Hanka e Paolo a Roma, e poi Irene e Giuseppe e Paola in Sardegna. Canto il mio Te Deum per Zebo, Jana, Elena, Igor… il piccolo granello di senape che Dio semina nella mia vita e che mi fa ripetere con papa Benedetto: «Non vorrei più vivere se non esistesse più il piccolo nucleo di credenti, se non esistesse più chiesa; anzi, dobbiamo completare: noi non potremmo più vivere, se così fosse».

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3 commenti

  1. Viviana Pietranico

    Canto il mio Te Deum per te don Alfredo, per la tua vita donata e per la nostra amicizia

  2. Martino

    È proprio vero: O Eterno Padre, tutta la terra ti adora.

    La fede ai semplici e ai piccoli, quale mistero.

  3. SUSANNA ROLLI

    Don Alfredo Fecondo,
    dopo la lettura non resta da fare altro che ringraziare Dio. Che ama tanto stare con gli uomini……

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