Suicidarsi non è libertà. La storia del Professore
Pubblichiamo la lettera che un medico palliativista che si firma Pietro Angelo Rossi ha scritto ad alcuni colleghi. Altre lettere dello stesso autore sono pubblicate sul sito dell’editore Ares.
Caro collega, cerco di dare seguito allo scambio di idee delle ultime settimane, soprattutto alla luce di quanto sta emergendo dai giornali di recente: “Non si può obbligare un malato a ricevere cure che rifiuta” è la giaculatoria preferita da alcuni, rispettatissimi maître à penser. Cercano persino di convincere il popolino che rifiutare la cure palliative, quando stai morendo e stai soffrendo, sia vera manifestazione di libertà.
E io torno indietro nel tempo, a molti decenni fa, quando fui chiamato, appena specializzato, ad assistere un malato molto complicato, perché era un medico.
Era una mattina di fine primavera e avevo per la testa altro, quando suonò il telefono dello studio: sollevai la cornetta e dall’altra parte sentii la voce di Carlo (in realtà, un altro nome), un collega, che chiedeva di me con evidente preoccupazione. Gli risposi presentandomi e mi disse: «Vieni subito, per favore, ho un problema con un paziente». Chiesi spiegazioni e mi rispose: «Non sono i sintomi, il problema è lui, perché il malato è il Professore!».
Mentre andavo a prendere la macchina, ripassai mentalmente quello che sapevo: “Il Professore”, come lo chiamavano tutti, aveva 98 anni, una laurea presa all’epoca del Re ed una libera docenza; per sovrappiù, qualche titolo di specialità, che non ricordo. Aveva vissuto nella cittadina in cui era nato e dove aveva curato praticamente tutti, per generazioni; qualcuno citava ancora uno o due tagli cesarei fatti nelle stalle, sulle balle di fieno, durante l’inverno: insomma, era un’istituzione. Però stava morendo, per senilità e per un tumore alla prostata, con metastasi ossee, molto dolorose.
Dare del “lei”
Arrivai a casa dell’illustre malato: un palazzotto d’altri tempi, dove egli viveva da solo, con una governante – il Professore era rimasto “signorino”, come si diceva, per dedicarsi anima e corpo ai pazienti. Unico parente, un pronipote ventenne, che andava ogni tanto a trovar lo zio Francesco (non era questo, il suo nome). Al mio arrivo, trovai all’ingresso Carlo, il quale mi spiegò: il Professore aveva dolore, rifiutava il cibo, rifiutava le terapie, voleva morire. Salimmo le scale, solenni e buie, per arrivare all’ultimo piano; in fondo al corridoio, una porta di legno intagliato e un’anziana signora che la aprì. Il medico di famiglia entrò subito e cominciò a dire:
“Ciao Francesco, come stai?” Un grugnito di risposta.
“Ti ho portato il collega di cui avevamo parlato, un giovane ospedaliero molto competente”.
Silenzio.
“Dai, per favore, fatti visitare”. Il malato si girò verso il muro e fece un gesto di rifiuto con la mano.
Io ero rimasto sulla porta, perché qualcosa mi stonava: perché un professionista, che aveva sicuramente chiare diagnosi e prognosi, faceva così? Perché rifiutava il cibo, le visite, i farmaci, preferendo passare le notti a gemere per il dolore? Mi guardai attorno: la casa, enorme, parlava di disponibilità economica e buon gusto, ma era vuota. Era pensata per una famiglia, ma lui era rimasto solo. C’era un intero piano, sotto, con una sala di attesa e uno studio, non più frequentati. La risposta era lì: non poteva essere trattato come un malato qualunque, aveva bisogno di un’assistenza personalizzata. Non dovevamo dargli del “tu”, come a qualunque altro collega, ma del “lei”, come si è sempre fatto per buona educazione. Era pur sempre un maestro e per di più anziano. Decisi per quel percorso.
Rimanendo fermo dov’ero, sbattei con forza i tacchi delle scarpe uno contro l’altro, per fare il saluto formale che, come allievi ufficiali, tutti avevamo appreso a Costa San Giorgio. Lo schiocco risuonò per la stanza e il Professore si girò di scatto; lo guardai con calma, mi presentai e gli chiesi il permesso di entrare: sotto lo sguardo stupito di Carlo, il malato assentì in silenzio. Arrivai ai piedi del letto e, rispettando rigorosamente l’etichetta, poggiai la borsa sopra il letto, ma ai piedi del letto, poi rinnovai la mia presentazione e gli spiegai perché ero lì. Mi ascoltava in silenzio. Gli proposi di continuare la visita in privato: altro assenso. Allora feci un cenno a Carlo e alla governante, affinché uscissero. Poi, con calma, parlai a Francesco della malattia, della prognosi; gli chiesi il permesso di visitarlo e me lo diede. Parlammo infine dei suoi sintomi, soprattutto del dolore, della necessità di controllarlo, dell’efficacia degli oppioidi. Accettò di farsi fare da me mezza fiala di morfina sottocute subito, e di farsela poi somministrare dalla governante, ogni sei ore. Uscii dalla stanza e riferii a Carlo, alla persona di servizio e al giovanissimo nipote, nel frattempo giunto: tutti stupiti dell’apparente successo di una sola visita.
Senza essere abbandonato
Tornai, come promesso, dopo una settimana. Francesco era seduto nel letto, sbarbato, ben vestito, composto e sereno. Chiesi nuovamente il permesso di visitarlo e me lo diede: stava decisamente meglio, il dolore era scomparso, aveva ripreso ad assumere anche gli altri farmaci, a pranzare e a lasciarsi accudire.
Al termine dell’esame obiettivo, mi disse: «Le chiedo scusa, dottore, per averla incomodata e fatta venire sin qui, dalla città».
Gli risposi: «Nessun incomodo, Professore: per me è un onore essere qui».
Mi guardò in silenzio, per un momento molto lungo, poi mi disse: «Allora, possiamo darci del tu».
«Ti ringrazio: io sono Pietro».
«Io sono Francesco».
Avevo capito bene, dunque: il problema era il rispetto per lui, come persona, non un atteggiamento di cameratismo. Sapeva benissimo che la morte era in arrivo, ma aveva bisogno di riappropriarsene, senza essere abbandonato. Feci alcune correzioni alla terapia e mi congedai.
Arte medica al servizio dei malati
Tornai dopo una settimana, ma non era più lì: era morto il giorno prima. Io ero molto dispiaciuto, perché speravo di avere più tempo, egoisticamente, per stare con lui, conoscerlo, aiutarlo, farmi aiutare come medico più giovane. Il tempo era finito, invece. Il nipote mi disse che lo zio, dopo la mia prima visita, era cambiato: aveva detto a tutti che non voleva più morire subito, voleva vivere ancora un po’, migliorare. Il ragazzo, forse un po’ ingenuamente, aggiunse: «Ho capito perché zio Francesco si fidava di Lei, dottor Rossi: ho visto le foto e assomigliava a lei, da giovane. Io penso che vedesse in lei se stesso, tanti anni fa».
Rimasi di stucco, ringraziai e tornai in ospedale, con una strana difficoltà a vedere bene la strada: nebbia, di sicuro, nonostante la stagione.
Caro collega, adesso forse capisci perché ti ho ripetuto insistentemente che il vero cancro del nostro mondo è la solitudine? Perché non è vero che suicidarsi è libertà?
L’arte medica non deve essere asservita ai desideri, ma al servizio dei malati: non è un gioco di parole, perché è in gioco il senso stesso della nostra professione.
Dillo ai più giovani.
Vado, perché i nipoti mi reclamano.
Tuo,
Pietro Angelo Rossi
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