Storia di suor Lucia e di una vita dedicata alle “perle” del Cottolengo
A raccontarci la sua storia è suor Lucia Mossucca del Cottolengo. Torinese, 38 anni, cresciuta in una famiglia in cui, come racconta, le sono stati insegnati «rispetto, tenerezza, stima, accoglienza dell’altro, disponibilità verso il prossimo, spirito di sacrificio». Un’adolescenza passata tra l’amore per la musica e per lo sport, in particolare il judo, e segnata dalla malattia e morte di una cugina con cui c’era un grande legame.
«Ci sono episodi nella vita – dice a tempi.it suor Lucia – che fanno crescere di colpo e in un attimo ti accorgi che nella vita per essere felici non basta vivere ma è indispensabile cercare risposte alle domande che abbiamo nascoste nel profondo e che diventano insoffocabili quando il dolore e la sofferenza bussano alla tua porta».
Proprio a seguito di questa esperienza, suor Lucia decide di iscriversi alla facoltà di Infermieristica. Nel frattempo «all’età di 17 anni mi sono innamorata di colui che per quattro anni è stato il mio fidanzato e con il quale sognavamo di sposarci al punto da fissare anche la data del matrimonio».
Laureata e con un matrimonio alle porte, suor Lucia manda curriculum ai vari istituti e progetta una meritata vacanza. Senonchè, uno di questi CV finisce al Cottolengo e, la sera prima della vacanza, suor Lucia riceve una telefonata di una voce pacata e gentile che la incuriosisce, al punto da farle accettare il colloquio per il giorno successivo.
«Durante la visita che la responsabile del personale mi fece fare nei reparti, c’era un clima di rispetto e cura tale da non sembrare neanche un reparto di ospedale. Tornai a casa molto turbata cercando di spiegare al mio fidanzato che quel posto mi trasmetteva una serenità tale da farmi dire: fermati qui, lascia stare le vacanze, ci andrai poi. Dopo qualche perplessità lui mi disse che se quello poteva essere un luogo dove ritenevo di esprimere al meglio quella che per me era una missione e non un lavoro, di fermarmi. E così perdemmo i biglietti dell’aereo ed io iniziai da subito a lavorare all’Ospedale Cottolengo».
L’inserimento lavorativo in Ospedale non è tutto rose e fiori, ma piano piano l’esperienza comincia a decollare, finché un giorno Suor Lucia si perde in uno dei tanti sotterranei del Cottolengo e si ritrova ad una festa organizzata per persone disabili. Quando chiede alle suore cosa sia quel posto, si sente rispondere: «È la Piccola Casa della Divina Provvidenza, della superficie di 112.000 metri quadrati ed abitata da circa 2000 persone. È la casa che accoglie persone sole, povere e rifiutate da altri ospedali. Queste persone con disabilità o disagi sociali sono le nostre perle, come amava chiamarle il nostro Santo Fondatore, il Cottolengo».
Racconta suor Lucia: «Rimasi così affascinata che dopo il lavoro tornavo in quel cortile e mi fermavo a parlare con queste persone speciali che, nonostante le loro gravi disabilità, avevano una serenità che invidiavo. In tutti i momenti che mi restavano liberi, come attratta da una calamita, sentivo il bisogno di correre da quelle persone che, seppur bisognose, erano capaci di donarmi serenità, affetto e gioia. Tutto ciò che prima aveva occupato il mio cuore e la mia vita sembrava sbiadire di fronte al desiderio e al bisogno di correre dalle “perle” della Piccola Casa. Non riuscivo a capire: per 22 anni la musica e lo sport avevano riempito e colorato la mia vita ed ora, improvvisamente, erano un nulla di fronte al mio desiderio di conoscere e frequentare le mie nuove amiche. Anche il mio fidanzato, che inizialmente mi seguiva in questi pomeriggi di volontariato, iniziò a rivendicare i suoi spazi. Ed io, pur capendo le sue esigenze, non sentivo più quel bisogno».
[pubblicita_articolo]I preparativi del matrimonio incalzano, c’è anche da firmare il compromesso per la casa, ma suor Lucia non si sente più sicura di nulla. Chiede tempo e le viene proposto di fare un mese di preghiera e meditazione. «Dopo una settimana di totale confusione, un pomeriggio di pioggia, mentre stavo meditando su un brano della Bibbia, ecco che mentre leggevo “Ti farò mio servo!” un raggio di sole entrò nella cella ed io provai un grande senso di pace e di calore. Quella frase era detta a me e pensai: se sei tu Signore che farai, che mi condurrai, va bene, mi fido. Non so bene cosa mi chiedi ma sii tu la mia guida!».
Il matrimonio non si celebrò più, e suor Lucia, dopo non molto tempo, entrò a far parte come consacrata della grande famiglia del Cottolengo. Cosa l’ha affascinata così profondamente da farle cambiare completamente vita? «Rimasi conquistata dalla semplicità degli ospiti così veri e diretti, così capaci di dare fiducia ad una sconosciuta che in un momento di tormento andava da loro non solo per aiutarli ma soprattutto per scoprire il segreto della loro gioia profonda. Qualche ospite non aveva gambe e braccia, Luigina poteva muovere solo gli occhi e parlare, ma era capace di dirmi parole consolanti e darmi consigli come nessun altro. In una vita dove sempre devi dimostrare di essere all’altezza e di saper competere, qui ti veniva solo chiesto di saper amare e stare, essere te stesso con le tue paure e le tue fatiche. Ricordo che Lidia, una ragazza down molto grave, un pomeriggio in cui ero molto tormentata a causa dei miei genitori, prese la mia faccia tra le sue mani e mi disse: “Non piangere, io ti voglio bene!”. Ero andata al Cottolengo per aiutare i poveri ed erano i poveri che aiutavano me e mi portavano a Gesù. Il Cottolengo spesso ripeteva alle sue suore: “I poveri sono Gesù, vanno serviti in ginocchio!”».
Oggi suor Lucia al Cottolengo serve il prossimo aiutando i malati a pregare attraverso la musica e accogliendo i pellegrini che vogliono visitare la Piccola Casa. «Teresina, Dora e Maria Luisa, Pierina, Maria Rosa, Antonietta, Carmela sono strafelici di animare la Messa della domenica delle 9 ed insieme prepariamo i canti e ne impariamo di nuovi. Nonostante abbia frequentato un corso di musica sacra a Roma, ed abbia fatto parte di cori prestigiosi, devo dire che nessun coro mi dà tanta gioia e soddisfazione come quello della famiglia Santa Elisabetta: composto da 12 signore che da una vita vivono qui e si muovono utilizzando la carrozzina. E anche nelle invitabili giornate faticose sono sempre loro, le nostre perle, a mostrarmi la via. Come Luigina, che nonostante sia in stato avanzato di sclerosi multipla mi dice sorridendo: “La malattia potrà anche paralizzare tutto il mio corpo ma non il mio cuore; nulla può togliermi la gioia di amare e di essere amata!”».
Foto da cottolengo.org
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