“Il dialogo che libera dalle opinioni”. Una grande lezione di Stanislaw Grygiel, morto ieri
È tornato alla Casa del Padre Stanislaw Grygiel, filosofo polacco grande amico di Giovanni Paolo II e per lungo tempo docente di Antropologia filosofica presso Il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II Matrimonio e Famiglia, oltre che co-fondatore e direttore della rivista Il Nuovo Areopago e membro della redazione francese della rivista Communio. Rendiamo omaggio al suo genio di pensatore cattolico pubblicando un testo inedito: la relazione – dal doppio titolo “Dialogo: testimonianza della verità” e “Il dialogo che libera dalle opinioni” – che tenne il 29 maggio 2019 nel corso della Conferenza internazionale “L’Europa tra il nichilismo post illuministico e la questione islamica”, organizzata a Cracovia dall’Università Giovanni Paolo II, dall’arcidiocesi di Cracovia e dal Centro internazionale Giovanni Paolo II per il Magistero sociale della Chiesa. Ringraziamo Marco Ferrini, presidente del Centro, per avere messo a disposizione questo prezioso testo.
La Santa Messa funebre per Grygiel sarà celebrata nella parrocchia santuario Santa Maria in Traspontina a Roma, giovedì 23 febbraio alle ore 15. La Santa Messa a Cracovia sarà celebrata dall’arcivescovo Jędraszewski domenica 26 febbraio alle 14 nella chiesa parrocchiale di Regine Edvige.
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L’uomo cade nella miseria, quando non c’è da chi possa andare per scambiare quelle parole che gli permetterebbero di udire la Parola da tutti attesa come senso e valore della vita. Ogni uomo desidera di essere pensato con amore da qualcuno per poter vivere in modo più bello, guardando da lontano quel Futuro in cui la durata non ha niente del tempo che passa, e il luogo per dimorarvi è totalmente diverso dello spazio misurabile. Ognuno cerca il Principio dal quale la sua vita scaturisce come l’acqua dalla sorgente e scorre attraverso il tempo e lo spazio verso la Fine che dovrebbe essere Inizio. Nel tempo e nello spazio l’uomo edifica la casa famigliare in cui desidera abitare per sempre. La edifica insieme con la persona con la quale egli vi dimora. Tra di loro, nel loro amore e lavoro, si crea un intervallo attraverso il quale scorre la luce dell’Amore che svela la verità della loro umanità edificata così, come da questo Amore è pensata nel Principio e compiuta nella Fine. L’Amore si rivela con la Parola, dia-logon. È dunque nel dialogo che si rivela la Parola dell’Amore, Parola che è Principio e Fine “dell’universo e della storia” (cfr Redemptor hominis 1).
L’Amore del Creatore entra come Dialogo Divino, dia-logos, nella relazione creativa con le persone che nel dialogo, attraverso la parola, dia logon, devono edificare anch’esse una comune dimora. Leggiamo nel Libro della Genesi: «E Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza”», e subito dopo: «Dio creò l’uomo /…/ maschio e femmina li creò» (Gen 1, 26-27). In altri termini l’Amore si rivela solo all’amore. Solo le persone che nell’amore parlano con gli altri sono idonee a parlare con Dio, poiché Egli stesso è Dialogo delle Persone unite dall’Amore. La verità e l’amore non accadono nei monologhi che ripiegano l’uomo su se stesso e lo rinchiudono nelle opinioni calcolate dal cogitare-velle che spadroneggia nel mondo d’oggi. Le persone nascono e si compiono non nelle opinioni ma nella verità che si rivela loro quando si donano reciprocamente. Il dono della verità crea la comunità delle persone. La crea anche la libertà portata dalla verità. La verità e la libertà avvengono nel dialogo non ridotto alla cosiddetta comunicazione, cioè a uno scambio di opinioni, anche di quelle di cui vive la scienza moderna. La verità e la libertà avvengono nel dialogo dei doni che l’una per l’altra sono le persone. La società moderna costituita dagli individui che non conoscono il dono, dagli individui svincolati dalla verità e dalla libertà, s’incatena sempre di più al muro delle opinioni (doxa della caverna di Platone), la cui cosiddetta scientificità mette in dubbio sia la Parola, «centro dell’universo e della storia» (Redemptor hominis 1), sia l’amore, quell’asse della vita dell’uomo, in questa Parola creato «maschio e femmina» (Gen 1, 27). Fare finta di non vedere ciò provoca il caos e la confusione nell’uomo e nella società.
Il serpente del Paradiso della modernità cerca di mettere in dubbio e, di conseguenza, di politicizzare la fede, la speranza e l’amore. Cerca allora di politicizzare la libertà. Per raggiungere questo fine induce gli uomini a credere di essere uguali a Dio e di non aver bisogno di alcuna parola epifanica da parte di nessuno, poiché essi stessi come Dio possono creativamente conoscere il bene e il male. È sufficiente pensare e volere che sia così. La rottura del dialogo con Dio li rende assolutamente liberi e perciò non responsabili davanti ad alcuno, tranne se stessi. Gli individui assolutamente liberi possono irresponsabilmente sognare un nuovo mondo, in cui all’uomo appartiene decidere persino dell’”essere e del non essere” di tutto e di tutti, incluso se stesso.
Il cogitare-velle che prescinde dalla realtà dell’uomo definito nell’atto della creazione da due differenze funziona come Principio del nuovo mondo. La prima differenza è quella ontologica, che unisce l’uomo con il suo Creatore. La seconda invece, quella sessuale, unisce la persona dell’uomo e la persona della donna in «una carne», rendendoli «immagine e somiglianza» del Dio Trino e Uno. Fuori di queste differenze abbiamo a che fare con un vuoto metafisico in cui l’uomo non trova «un aiuto che gli fosse simile» (cfr Gen 2, 20). Solo l’amore e mai il vuoto, nemmeno quando fosse riempito della più che sia possibile efficacemente calcolata economia e della matematicamente più giusta politica, può essere dimora della libertà.
Le persone trovano l’aiuto «simile a loro» quando si donano l’una all’altra. Il dono di sé rivela all’altra persona la verità dell’uomo. La persona aiuta un’altra persona a ritrovare se stessa con la parola epifanica, dia logon, creata dall’amore. La menzogna che annienta il dialogo, cioè la vita spirituale dell’uomo, deforma la verità, l’amore e la libertà. Incatena l’uomo a ciò che non c’è. Lo costringe a edificare la sua dimora nel non-essere, rendendolo dipendente dal tempo e dallo spazio. Dimora della persona non è che un’altra persona. La dimora la edificano insieme, dia logon. Perciò, quando non incontra un’altra persona con cui poter abitare nel dialogo, per udire assieme la Parola che dà il valore e il senso alla vita, la persona si sente esiliata da se stessa.
La verità e la continuità delle parole che uniscono le persone in una totalità, dipendono dalla Parola in cui Dio rivela loro il Suo Amore che le destina all’amore, cioè al vivere in modo divino. Il dialogo interpersonale ha senso e valore a condizione che tra le parole umane traluca la Parola del Dio vivente come il sole traluce tra le nuvole. Insieme con la Parola di Dio le parole umane costituiscono una sinfonia della verità, del bene e del bello, verum, bonum et pulchrum, nella quale avviene la metafisica della persona umana. Il dialogo che unisce l’uomo con il Creatore e il dialogo che unisce maschio e femmina «in una carne» tracciano la via per l’antropologia metafisica.
L’uomo moderno non dimora nel dialogo, poiché egli ammira soltanto le opinioni nelle quali non trova che se stesso. Il suo antimetafisico narcisismo lo allontana dal Principio in cui c’è «il centro dell’universo e della storia”». Allontanandosi dalla dimora famigliare edificata negli spazi della differenza ontologica e della differenza sessuale, l’uomo abbandona l’«aiuto conveniente a sé» e cerca la salvezza nello scambio delle opinioni, invece di cercarla nel dialogo.
Le opinioni sono ombre della realtà, sono dunque ombre della verità. Il comunicarle, oggi chiamato dialogo, non crea la comunione delle persone, nella quale avvengono la verità, il bene e il bello. Crea invece qualche ammasso di individui spiritualmente morti e quindi incapaci di porre la domanda sulla verità dell’uomo, in quanto su di essa la si può porre soltanto in due con gli occhi fissi sul Terzo nel cielo. La verità, il bene e il bello avvengono nel triangolo d’amore costituito dalle due persone unite con Dio. Non essendo oggetti, la verità, il bene e il bello non sono proprietà dell’uomo. Non è possibile dividerli e fare la scelta di ciò che al momento piace. Colui che li divide, li distrugge. L’uomo che pone una domanda su di loro e li cerca, appartiene a loro e non viceversa. Si dona a loro. Entra nella loro dimora trascendentale attraverso l’amore: non intratur in veritatem nisi per caritatem – scrive sant’Agostino. Allora vi entra in due, cercandovi il Terzo. Gli individui resi soli, per i quali tutto è uguale, cioè tautologicamente insignificante, si orientano secondo le quantità il cui valore e senso si riducono a ciò che risulta del tempo, dello spazio e del cogitare-velle. Ciò che oggi oppure qui è male, domani oppure lì potrà essere buono. Gli individui resi solitari conoscono soltanto l’etica che consiste nel discernimento della situazione e nel misurarvi delle quantità funzionanti come se fossero il senso e il valore della vita. Gli individui che vivono nella solitudine metafisica non sono idonei a testimoniare la verità e il bene, cioè a essere testimoni della bellezza «dell’universo e della storia», qual è la persona umana.
Le ombre della realtà tolgono all’uomo la voglia di domandare sulla verità e di cercarla. Perdendo la fiducia nella dittatura del cogitare-velle, perdiamo la fiducia in noi stessi e negli altri, e «diventiamo “misologi”, come si diventa misantropi, perché non c’è guaio peggiore di questo da dover subire che prendere in odio i ragionamenti. La misologia nasce allo stesso modo della misantropia».
La misantropia e la misologia cancellano la soggettività della persona umana. Il misantropo e il misologo rigettano la cultura dell’amore della verità, rigettano allora la cultura di ciò che la filosofia classica chiama agere. Mettono invece al primo posto la produzione degli oggetti, cioè il facere, che sostituisce la cultura con la “produttura”. Tuttavia il progresso della produttura di cui decide un assoluto e tecnico “soggetto” da nessuno controllato, poiché la sua natura è da nessuno conosciuta, alla fine spaventa sia il misantropo che il misologo. La storia che è l’uomo precipita addirittura verso l’abisso, se non è collocata nel dialogo di cui parla la domanda epigrammatica: Quid sit veritas?, e altrettanto epigrammatica risposta: Veritas est vir qui adest – verità è la persona presente (ad un’altra persona). Perfino Heidegger dice che solo Dio può salvare tale storia.
La società si immiserisce e si disgrega quando non si converte al Principio in cui scaturiscono le sorgenti dell’«acqua viva» (cfr Gv 4, 10) che è la verità. Non è possibile riformare la società scadente; essa deve rinascere, se vuole vivere. È la verità e non sono le opinioni a chiamare l’uomo a cambiar vita. Lo chiama a essere presente per la persona presente per lui. Donarsi alla persona presente significa accettare l’appartenenza alla verità che si rivela in lei e in questa verità iniziare una nuova vita. La conversione non ha perciò nulla a che fare con gli accordi stipulati dagli individui in nome degli interessi del momento. La conversione avviene non nello scambio delle opinioni e nel concordarle, ma nel dialogo delle persone presenti l’una all’altra. Gli uomini che giocano alle opinioni come si gioca a carte non si convertono. Non rischiando la croce per se stessi, rischiano di non poter rinascere.
I giocatori alle opinioni mirano a sconfiggere gli avversari e non alla vittoria della verità che li unirebbe in una comunità di persone. Perciò spesso contraffanno il contenuto delle parole, che per loro non sono che carte da giocare. La volontà moderna di effimero successo ha privato parole come amore, matrimonio, famiglia, giustizia, libertà, uguaglianza, fratellanza, pace, misericordia, del loro contenuto, cui esse appartengono. Attacca invece a queste parole diverse esche di moda e le tende agli uomini come si tendono le trappole con un pezzo di formaggio per i topi.
L’uomo non trova «l’aiuto che gli fosse simile» nelle parole in cui non c’è posto per la Parola presente nel creato che esce «come cascata (…) dal petto immenso di Dio… che si fraziona in torrenti… poi si compone in una croce luminosa» . La modernità mette nelle parole le esche che promettono all’uomo la divinità fuori del Dio vivente, e di trovarla nel monologo con se stesso e al di là perciò del bene e del male. Karol Wojtyła sapeva bene perché occorresse creare l’antropologia sulla base dell’esperienza del dialogo, che costituisce un momento essenziale dell’esperienza morale della persona. Secondo lui tale antropologia è antropologia adeguata, poiché racconta la storia che è l’uomo creato maschio e femmina nella Parola della Verità, che è l’Amore del Padre e del Figlio in Dio. La storia dell’amore della verità e del bene, che unisce l’uomo e la donna in “una carne”, si compie nello spazio della dialogale differenza ontologica e in quello della dialogale differenza sessuale. Perciò questa storia, svolgendosi in questi due spazi, ha carattere morale. Può essere macchiata dal male morale, che si elimina non con la tolleranza dello stesso male ma con un continuo rispondere all’Amore creante con amore creato. Ne parla il Socrate di Platone, quando chiede ai suoi amici: «Voi, se volete darmi ascolto, preoccupandovi poco di Socrate, ma molto più della verità, se vi parrà che io dica qualcosa di vero, convenitene pure, se invece no, opponetevi con ogni ragionamento, stando in guardia che io per la passione non inganni me stesso e voi, e me ne vada di qui, lasciandovi il pungiglione, come fanno le api».
Il dialogo delle persone, di cui parlano Platone e nel secolo scorso i filosofi del dialogo, nasce nello stupirsi della bellezza del corpo umano, dei pensieri e azioni umani, e soprattutto nello stupirsi dell’Eterna Bellezza della Parola del Dio vivente, che si riflette nella bellezza della persona umana, nel suo esse e nel suo agere. Basta un istante di questo estatico stupore perché l’uomo possa uscire dall’Egitto delle opinioni e cominciare ad affondare le radici nella Terra Promessa della Verità e del Bene. Il Dio così adorato dall’uomo lo educa, donandogli le forze perché rinasca, in modo da diminuire il suo “avere” e far crescere invece il suo “essere” secondo la misura divina del «Sono Colui che sono».
Se con il dialogo le cose stanno così, solo le persone possono farlo, mai le istituzioni. Le istituzioni non amano e non conoscono, non agunt. Le loro strutture possono favorire il dialogo delle persone, non possono mai però sostituirlo. Pilato visse un istante dello stupore della bellezza della Persona innocente di Cristo. Visse l’esperienza della chiamata all’amore e alla conoscenza della verità, sfortunatamente però la sua volontà e la sua ragione, deformate non solo dalla politica e dalla dipendenza istituzionale da Cesare ma anche dalla dipendenza dai Giudei che lo ricattavano, non riuscirono a passare attraverso la porta stretta oltre la quale lo aspettava Cristo. Cristo era presente a Pilato, ma Pilato non era presente a Cristo. Compromesso nella politica e nella paura di perdere l’ombra di potere che aveva tra le mani, Pilato raffrenò i suoi occhi spirituali così che persino la persona a lui più vicina, la moglie, non fu in grado di aiutarlo ad intravvedere la realtà e la Verità che gli stavano davanti.
Lo scambio delle opinioni e la politica non interessano Cristo. Egli è venuto nel mondo per dare testimonianza alla verità divino-umana dell’uomo e non per creare su di lui una qualche nuova opinione che nessun argomento sarebbe in grado di salvare dall’oblio. Il satana suggerì a Cristo opinioni che L’avrebbero condotto a conquistare un potere politico e a guadagnarsi il popolo con l’aiuto della beneficenza. Cristo non entrò tuttavia in dialogo con il satana, poiché era venuto nel mondo per riportare la vittoria eterna e non un effimero successo. Solo una volta chiese ai Suoi discepoli: «La gente chi dice che sia il Figlio dell’uomo?», ma lo chiese per mettere in rilievo la differenza essenziale tra questa domanda e la domanda con la quale interruppe la loro sociologica discussione: «Voi chi dite che Io sia?». Gli rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». La risposta di Cristo rivela da chi Pietro ha ricevuto il dono di questa conoscenza: «Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre che sta nei cieli”» (Mt 16, 13-17). Alla Verità che è Cristo non si arriva con i ragionamenti (“la carne e il sangue”). La Verità la si riceve dal Padre celeste, che ha mandato il Suo Figlio perché Egli le desse per primo la testimonianza dia logon. D’ora in poi i discepoli di Cristo devono con le loro parole dare testimonianza alla Verità del Dio vivente rivelata nella Sua Parola. È a questa Parola e non alle opinioni su di Essa e sull’uomo che devono obbedienza. Sul monte della Trasfigurazione la “voce” del Padre lo dice loro con le parole chiare e non ambigue: «Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo» (Mt 17, 1-5).
Nell’obbedienza dialogale alla verità dell’uomo creativamente pensato dal Padre nel Suo Figlio nascono le amicizie, i matrimoni, le famiglie, le nazioni e la Chiesa. Nascono dunque come comunità orientate al “centro dell’universo e della storia”, alla Parola del Dio vivente. Perciò queste comunità trascendono gli accordi fatti tra opinioni a seconda degli interessi. A questi surrogati delle amicizie, dei matrimoni, delle famiglie e delle nazioni è estraneo il bene comune che è la persona umana, la sua verità da conoscere e il suo bene da amare.
Stiamo arrivando alla domanda fondamentale su cosa debba essere per i cristiani il dialogo interreligioso. Senza dubbio esso non deve essere un concordare delle verità della fede così come si concordano le opinioni per costruire un qualche modus vivendi. Laddove la Parola del Dio vivente viene appiattita su parole umane, la logica della Verità Divina viene sostituita dalla logica dell’umanitarismo. La Verità, che per il cristiano è la Via e la Vita, non gli permette né di predicarla per gli effimeri interessi, né di dividerla in parti, alcune delle quali mettere in rilievo e altre passare sotto silenzio a seconda della situazione. La Parola del Dio vivente non è composta di parti poiché non ne è composto Dio che la pronuncia. Per questo qualsiasi Organizzazione delle Religioni Unite fatta “a immagine e somiglianza” dell’Organizzazione delle Nazioni Unite sarà negazione di Dio e della divina verità della persona umana. Le conseguenze morali di una tale negazione di Dio devasteranno l’uomo e la società. Ne ha parlato, mettendolo in risalto, san Giovanni Paolo II. Nel dialogo interreligioso nessuno può comportarsi come se fosse proprietario della Verità. Colui che dimora in esso dovrebbe condividere con le altre persone, e non con una massa di individui, la propria vita che appartiene al Padre, la cui Parola di Verità libera l’uomo da se stesso e lo aiuta a creare questa grande opera d’arte che è la sua persona e la persona cui egli si affida. Quest’opera nasce nella dialogale testimonianza data alla Verità indivisibile nell’unione dell’uomo con Dio che lo pensa maschio e femmina.
Il desiderio profetico di udire la Parola del Dio vivente, il profetico desiderio di vedere la propria persona alla luce di questa Parola e il profetico desiderio di affidarle se stesso improntano il dialogo interreligioso. Il cristiano può e deve entrarvi perfino con il “nemico”, a condizione che entrambi profeticamente desiderino qualcosa di più di se stessi. È, infatti, nel desiderio della Trascendenza che comincia a rivelarsi la verità dell’uomo orientato al «centro dell’universo e della storia».
Nell’uomo il desiderio della Trascendenza è oggi addormentato. Non sarà facile risvegliarlo, poiché la modernità atea, avendo paura della Parola, verso la quale il desiderio della Trascendenza orienta l’uomo, fa tutto quanto è in suo potere per rendergli impossibile affidarsi al Dio vivente. Riduce perciò i dialoghi agli accordi politici il cui legame è costituito dai sentimenti che orientano gli uomini ai piaceri e al desiderio di prevalere sugli altri uomini. La modernità si oppone con sempre crescente veemenza a Cristo che manda i Suoi discepoli al mondo a predicare a tutti la Parola filiale del Dio vivente: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16, 15-16). Cristo non manda i discepoli, perché predichino opinioni e discutano attorno a queste con le nazioni, e perché stipulino con esse vantaggiosi accordi. Egli li manda affinché, battezzandoli, introducano tutti nel dialogo dell’affidamento alla Parola del Dio vivente. Non è loro lecito costringerli ad affidarsi a Dio – ciò sarebbe proselitismo. Devono soltanto vivere e parlare di questa Parola e dell’uomo così da far intravvedere la bellezza della Verità intera e la bellezza della fede, della speranza e dell’amore e da risvegliare il desiderio di abitarvi. La missione alla quale Cristo chiama l’uomo si identifica con l’essenza stessa della sua persona. Essere persona significa essere mandato agli altri con una ben definita missione. La persona, avendo un carattere missionario, non si realizza che nel dialogo. La missionaria cura degli altri alla quale Cristo chiama i Suoi discepoli li espone al rischio di essere beffati e perfino a quello della morte.
Occorre ripensare più profondamente la missione della Chiesa, il suo annunciare la libertà, della quale ha parlato Benedetto XVI il 12 settembre 2006 nell’Università di Ratisbona. Occorre ripensare questa missione personale alla luce dell’antropologia adeguata di san Giovanni Paolo II. Non ci si sono leggi né procedure che possano sostituire la domanda sulla verità e sul bene della persona umana, la domanda sulla libertà di ricevere la fede, la speranza e l’amore, e sulla libertà di tramandarli alle altre persone. Le leggi e le procedure non fanno tralucere tra le persone la Verità. Nel mondo modellato soltanto dalle leggi e dalle procedure l’eternità non dice agli uomini cosa debbano fare nel tempo. Occorre insieme con san Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI domandarsi come oggi guardare al cielo e come vivere in modo adeguato ai segni che vi appaiono, per poter aiutare gli uomini concentrati sul pezzetto di terra su cui poggiano i piedi nella ricerca di un rifugio per sé a rialzare il capo e a guardarsi nella prospettiva della Verità che li avvolge dall’alto.
Non c’è dialogo se non si dà testimonianza alla Verità. Nella lingua greca il testimone, martyros, rende quanto è dovuto all’universo e all’uomo. Rende loro giustizia e grazie a ciò diventa uomo giusto che vive in armonia con la verità che avviene tra di lui e la Parola in cui Dio crea «l’universo e la storia». Essendo testimone di Dio, il martyros è orientato ad Christum Redemptorem (cfr Redemptor hominis 1). Insieme con la Parola del Dio vivente adempie all’ordine che scopre nell’universo e in se stesso, il che significa che le fondamenta dell’etica del testimone giusto si trovano sia nella natura della persona umana sia nella Rivelazione. L’ingiustizia consiste perciò nel vivere nella discordia sia con l’uomo che con Dio. L’uomo ingiusto cerca in se stesso la capacità di creare qualcosa che potrebbe funzionare come verità almeno per un certo tempo.
La libertà degli uomini incatenati alla verità con la domanda su di essa fa sì che essi non abbiano paura di poter essere eliminati dalla società. Assieme a Socrate non esitano a confessare che anche se, vivendo secondo la verità, dovessero essere i soli a vivere in altro modo da come vivono tutti gli altri, sceglierebbero soltanto una simile vita. Fa pena e tristezza il fatto che oggi tanti apostoli mandati da Cristo a dare testimonianza alla Verità non ne parlino più. Pervasi da una potente paura delle sue conseguenze, invece di porre domande su di essa e di cercarla si perdono nel gioco “intellettuale” delle opinioni di cui il satana è impareggiabile maestro. Preoccupano e spaventano le parole di Cristo: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18, 8). Troverà almeno un giusto oppure non troverà che schiavi delle strutture politico-economiche e delle procedure di cui profittano gli schiavi più potenti?
La modernità mette l’uomo davanti alla necessità di scegliere: vivere nel dialogo personale con gli altri oppure giocare con loro alle opinioni. Essa ritiene il gioco efficace delle opinioni un lavoro politico per il bene della società, elimina al contrario il dialogo delle persone perché esso pone un freno ai suoi impeti totalitari. I padroni del mondo moderno hanno paura della forza politica dei dialoghi personali. Socrate, che aveva vissuto soltanto la vita privata, ponendo agli altri domande sulla verità delle cose, non aveva alcun dubbio di essere il più grande politico in Atene. Le sue domande ricordavano agli Ateniesi il bene comune che costituisce il bene dell’anima dell’uomo e che il politico ha il dovere di realizzare. Proprio per questo il politico deve aver cura in primo luogo dell’amore e della conoscenza della verità, cioè dell’agere adeguato all’essere persona dell’uomo (agere sequitur esse), e solo dopo cercare di comporre le diverse opinioni e preoccuparsi dell’efficacia del facere produttivo. I cittadini devono rinascere «in Spirito e nella verità». Solo allora saranno più spediti sulla via verso l’eterna Saggezza che fa vedere il bene comune, cioè la verità della persona umana.
Il dialogo delle testimonianze date alla verità va oltre i compromessi fatti dai sostenitori delle opinioni. I compromessi col porre domande sulla verità e col cercarla gettano ombre tra gli uomini. Le ombre della non-verità possono creare comodi modi vivendi, nulla tuttavia divide gli uomini e provoca guerre tra loro quanto proprio questi modi vivendi. L’uomo trova «l’aiuto simile per sé» (cfr Gen 2, 20) non nelle teorie nelle quali non c’è nessuno, ma in un’altra persona che loro è presente. Adamo ed Eva si uniscono non quando impongono nomi a se stessi e alle cose ma quando sono permeati e formati dallo stupore per la bellezza della loro reciproca presenza. Lo stupore per la bellezza della verità e del bene delle loro persone li risveglia dal sonno profondo in cui sognavano un mondo fatto di opinioni, e unisce le loro persone risvegliate in “una carne”. Così uniti diventano una viva testimonianza dell’Amore che è la Bellezza eterna presente nei suoi riflessi nel tempo e nello spazio. Raccontano di Dio e dell’uomo con la lingua propria dello spirito incarnato e della carne ricolma dello spirito. Diventano sempre di più una sola parola, poiché sempre di più diventano una sola coscienza morale.
La persona mandata da Dio a un’altra persona, il cristiano mandato da Cristo al mondo, deve avere il coraggio di dire sempre il giusto “Sì, sì” e, ugualmente, il giusto “No, no”. Ciò che è in più, cioè ogni forma di compromesso del “Sì, sì” e del “No, no”, proviene dal maligno. La giustizia dell’amore della verità non proviene dai calcoli della ragione ma dalla certezza della fede che il Cristo morto e risorto perché gli uomini abbiano la vita in abbondanza è il Figlio del Dio vivente. Il giusto “sì” e il giusto “no” non riducono la parola del Dio vivente in frammenti per giungere a compromesso con il mondo, poiché non si sceglie da Dio ciò che sul momento piace. Quando la Parola del Dio vivente dice: “chiunque” abbandona la propria moglie e prende un’altra donna commette adulterio, lo dice di ogni uomo, senza eccezione. Se non fosse così, Cristo non saprebbe cosa c’è dentro l’uomo e dovrebbe domandarlo agli altri (cfr Gv 2, 25). Forse non sarebbe oggi che uno dei famosi sociologi.
L’amore della verità che esige la giustizia chiama ogni uomo a guardare l’universo e la storia della propria vita alla luce del Principio che è l’atto della creazione e a stare in ascolto della Parola nella quale Dio pensa creativamente tutto ciò che esiste (cfr Mt 17, 1-5). La luce del Principio e lo stare in ascolto della Parola che è questo Principio costituiscono la condizione perché il dialogo delle testimonianze date alla Verità formi non solo “la storia” ma anche “l’universo”. Il dialogo delle testimonianze non mira ai compromessi politici che distruggono negli uomini la verità con la menzogna delle mezze verità del «sì e allo stesso tempo no». Nel dialogo delle testimonianze rinasciamo «in Spirito e nella verità», ritornando alla Parola detta nel Principio, cioè sempre più adeguatamente adorando il Creatore. L’amore e l’obbedienza alla Sua Parola sono allora fondamento del discernere e del valutare le situazioni in cui viviamo, e non viceversa. Non è la situazione ma la Parola del Dio vivente a essere Prima Premessa (Dignitas Divina). Colui che pensa di sé e della società più nella prospettiva della situazione che in quella della Parola di Dio, si condanna alle ambiguità e ai compromessi, che formano su basi di solo sentimento e con breve durata i matrimoni, le famiglie, le nazioni e persino la Chiesa. Il sentimentalismo deforma la realtà spirituale della persona umana, trasforma persino la misericordia – senza la quale la persona cessa di essere se stessa – in una beneficenza che implica anche la tolleranza del male.
Credo che la società moderna comincerà a rinascere quando si renderà consapevole di come la tolleranza onnipotente offenda la dignità della persona umana. Colui che tollera l’uomo, non rinascerà mai. Rinasce soltanto colui che ama l’uomo. L’uomo che ama un altro uomo dimora con lui nel dialogo e in esso insieme con lui cammina verso la terra promessa nel Principio. Insieme vedono il bene che fanno nell’amore e il male che commettono quando quest’amore manca a loro. Si educano quindi l’un l’altro, guidandosi reciprocamente fuori dall’Egitto dei successi privati, dove l’assenza dell’onore e la paura “governano” la società. Non tradiscono la verità, perché non abbandonano la realtà, nella quale essa avviene, e non partono «per un paese lontano» (Lc 15, 13) dove la gente la spreca se stessa, identificandosi con le opinioni, per le quali non bisogna rischiare la vita. Nel dialogo con gli altri, i testimoni della Verità inchiodata sulla croce non hanno paura né degli scherni né della morte. I testimoni della Verità sono liberi perché sono responsabili non davanti alle opinioni ma davanti alla Parola che è «centro dell’universo e della storia» e verso la quale sono orientati i loro cuori e i loro pensieri (cfr Redemptor hominis, 1). È la Parola e non «l’universo e la storia» a decidere del bene o del male. L’uomo può invece rendere giustizia a essi oppure vivere nel disaccordo con sé e con gli altri in quanto la verità del bene e del male non si rivela che nel dialogo epifanico delle persone che si donano l’una all’altra. Nella miseria della solitudine causata dall’assenza di questa verità dialogale gli individui vivono condannati a dimorare nei monologhi nei quali non trovano «l’aiuto conveniente» a sé e perciò non conoscono chi essi stessi siano. È questa la tragedia della civilizzazione tecnica in cui viviamo.
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