
Stangata rossa la trionferà
Chi ci ha visto giusto è stato Liberazione, il quotidiano di Rifondazione Comunista. «Come trovare i soldi “da sinistra”», titolava trionfante domenica 2 luglio. Invece molti giornali dell’opposizione hanno dato del coraggioso a Bersani, che aveva finalmente fatto quello che Berlusconi avrebbe dovuto, o hanno minimizzato gli aspetti più prettamente finanziari della “manovrina”, giocando sul fatto che il governo, dopo avere paventato il buco nei conti pubblici, avesse prodotto un topolino (Tremonti, anzi, l’ha definita «manovra zanzara».).
Si scorrano gli indici di borsa della scorsa settimana. Sembra che sugli immobiliari abbiano bombardato. Sui finanziari, che hanno una grossa parte di business nei mutui e leasing immobiliari, pure. Pirelli Real Estate ha perso dal 3 al 7 luglio il 15 per cento, Italease il 22. Unicredit il giorno dopo la firma del decreto, il 5 luglio, ha perso il 3 e da sola ha bruciato 2 miliardi di euro di capitalizzazione, quasi la metà di quello che il governo si aspetta dalla manovra. Il mercato non si è sbagliato, ha guardato dietro la foglia di fico di quattro liberalizzazioni marginali e ha capito che ci si è industriati ad ammazzare il settore immobiliare.
Come? La questione è molto complicata, quasi per iniziati, avviluppata com’è in un groviglio di norme e di rimandi. All’essenziale, si dirà che per le transazioni immobiliari operate da imprese si è passati da un prevalente regime Iva a un prevalente regime di registro. E come tutti sanno, l’Iva per le imprese è una imposta “neutra”, che si sborsa quando si compra un bene ma si recupera quando lo si vende. L’imposta di registro no, è una imposta che si paga e basta, non si recupera più vendendo il bene su cui è stata assolta. Questo vuol dire che, ad ogni passaggio di proprietà, il costo di un bene è destinato ad aumentare almeno del valore dell’imposta di registro. E siccome non parliamo di un tributo di poco conto, ma del 10 per cento del valore di ogni transazione, si capisce che ad ogni passaggio il bene si carica di un extracosto. Il che non può che produrre due effetti: lo schiacciamento dei margini per gli operatori e la rarefazione degli scambi. In più, va detto che le poche transazioni Iva rimaste, se effettuate a favore di imprese che vogliono tenere gli immobili per trarne un reddito, generano ora Iva indetraibile, e qui il balzello si fa ancora più pesante, perché per i fabbricati a destinazione ufficio e industriale o commerciale l’aliquota è del 20 per cento.
CENTRALISMO EDILIZIO
Fuori gioco anche il leasing. Se infatti il passaggio di proprietà è soggetto ad Iva, è previsto che la società di leasing che compra l’immobile per sublocarlo non possa più detrarre l’imposta assolta sull’acquisto (pari sempre al 20 per cento) e dunque debba traslare tale onere sul compratore; se la transazione è soggetta a registro, l’imposta si pagherà due volte: sull’acquisto operato dalla società di leasing all’inizio del contratto e sul riscatto del bene alla sua fine. In ambo gli scenari si annulla o si riduce di molto la convenienza ad utilizzare questa diffusissima forma di finanziamento che, a differenza del mutuo, consente alle banche di coprire una parte maggiore del costo dell’operazione, essendo il creditore garantito dalla diretta proprietà del bene.
Ma il decreto interviene anche sul processo di produzione edile. D’ora in poi l’appaltatore si deve fare garante verso lo Stato della regolarità fiscale e previdenziale dei suoi subappaltatori, il che significa che se i secondi non pagano le ritenute fiscali e i contributi, deve pagare il primo. Si capirà la difficoltà nell’affidare un subappalto: gli appaltatori finiranno per chiedere fideiussioni ai subappaltatori onde evitare di essere trascinati nel gorgo di problemi di cui non hanno il controllo. L’aumento dei costi sarà fatale. Non solo, ma è previsto che il subappaltatore, per i propri servizi, non possa più emettere a carico dell’appaltatore fattura con Iva, così da potere compensare l’Iva che ha corrisposto a sua volta ai propri fornitori con quella che gli deve il suo cliente appaltatore, e andare così in equilibrio finanziario. No, il subappaltatore dovrà fatturare la sua prestazione senz’Iva e sarà l’appaltatore che dovrà provvedere a regolarizzare l’imposta. In sostanza, nel subappalto edile verrà interrotta la catena dell’Iva e il subappaltatore invece di pareggiare andrà a credito d’Iva e dovrà chiedere il rimborso all’Erario (coi noti tempi di attesa), con grave aggravio finanziario. è un chiaro segno dell’avversione che chi ha scritto il decreto ha per l’esternalizzazione dei servizi produttivi da parte delle imprese di costruzione, e della volontà di spingere, dirigisticamente, verso l’integrazione verticale delle imprese del settore, così da poterle controllare meglio.
E IN SVIZZERA SI BRINDA
E fino a qui, il quadro di una legislazione punitiva verso un settore, l’immobiliare, che non è fatto certo solo dei furbetti del quartierino, ma di un universo variegato di soggetti, dai piccoli artigiani alle grandi immobiliari, dai fondi di investimento immobiliare su cui gli italiani hanno cominciato a puntare come strumento di diversificazione dei loro risparmi, agli imprenditori che investono in capannoni ed uffici, dando così un segnale di radicamento e di speranza per il futuro, dalle società di costruzione al privato cittadino. Ma c’è qualcosa di più e di peggio in questo provvedimento. Qualcosa che lo porta fuori dal confine della legittimità, almeno di quella sostanziale, e lo fa essere un vulnus alla regola materiale secondo cui, in democrazia, chiunque vinca deve rispettare il principio della personalità dello Stato e della continuità dei suoi impegni verso i consociati. Il principio che vuole che la legge non operi che per l’avvenire e non tocchi situazioni già consolidatesi, principio che, peraltro, è sancito nell’art. 3 dello Statuto del contribuente (L. 212 del 2000, voluta dalla precedente maggioranza di centrosinistra) che prevede che le disposizioni tributarie non abbiano effetto retroattivo e si radica nell’art. 53 della Costituzione, ove si pone a fondamento e limite dell’azione di finanza la capacità contributiva (attuale) dei cittadini.
La “manovrina” Prodi contiene un congegno in virtù del quale chi detenga un immobile i cui frutti siano ora soggetti a registro dovrà riversare all’Erario in tre rate scadenti a fine 2006, 2007 e 2008 parte dell’Iva che ha legittimamente detratto all’atto dell’acquisto. Esempio: un’impresa nel 2003 compra per 10 milioni un capannone industriale su cui paga 2 milioni di Iva, che detrae secondo la legge vigente all’epoca. Questa impresa, mettiamo, è l’immobiliare di un gruppo industriale e loca lo stabilimento ad una sua consociata società operativa. Ebbene, secondo il decreto, questa impresa deve ora riversare all’erario i 7 decimi di quell’Iva, cioè, diciamo fra 1,4 e 1,3 milioni di euro, in tre comode rate annuali. Il contribuente pensava di spendere 10 milioni per quell’immobile, aveva fatto i suoi calcoli e si era fatto finanziare per quel valore, e adesso il governo gli dice che l’immobile costa da 1,3 a 1,4 milioni in più. Incredibile, ma vero. E se quei soldi non li avesse? «Il mancato versamento di ogni singola rata comporta l’applicazione dell’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, e costituisce titolo per la riscossione coattiva» recita inflessibile la norma: vale a dire, chi non può pagare sconta la sanzione del 30 per cento e subisce il pignoramento sui beni.
Anche all’interno del governo si comincia ad ammettere l’errore, che questo è un effetto collaterale non previsto di una disciplina molto complicata. Ma non è vero, non è stato un errore. C’è un capitolo (a pag. 71 e ss.) della relazione tecnica di accompagnamento al decreto dedicato a questo effetto, che è stato previsto e voluto, anche se minimizzato nelle sue proporzioni. è più probabile che Bersani e soci abbiamo tentato di fare i furbi, sperando in distrazioni mondiali. Di sicuro, in Svizzera, stanno brindando. E non per le nostre teutoniche vittorie.
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