Sri Lanka, strage di Pasqua. «Stanno cercando di insabbiare tutto»

Di Rodolfo Casadei
30 Giugno 2019
Le durissime accuse del cardinale srilankese Malcolm Ranjith: «Persino il capo dello Stato potrebbe avere delle responsabilità, perciò stanno cercando di nascondere i fatti»

Sono trascorsi 70 giorni dagli attentati di Pasqua (21 aprile scorso) che causarono 258 morti e più di 500 feriti in tre chiese e in quattro strutture alberghiere dello Sri Lanka, e ancora non s’è fatta chiarezza né sulle responsabilità per i mancati provvedimenti di sicurezza da parte delle autorità, che erano state più volte avvertite dell’imminente pericolo dai servizi segreti indiani, né sulle complicità internazionali che hanno permesso a un gruppo radicale islamico locale fino ad allora militarmente irrilevante di condurre il più sanguinoso attacco terroristico nella storia di un paese che pure ha conosciuto gli orrori di una guerra civile durata più di trent’anni e conclusasi solo nel 2009.

LE ACCUSE DEL CARDINALE

Nella settimana in corso sono risuonate con clamore le parole del cardinale srilankese Malcolm Ranjith in visita ad limina a Roma, dove ha consegnato a papa Francesco un dvd con immagini e filmati delle stragi e dei funerali dei cristiani trucidati mentre celebravano la Pasqua: «Tutti stanno cercando di scaricare la colpa su altri», ha dichiarato il presule. «Ed è in corso un tentativo di nascondere i fatti. Persino il capo dello Stato potrebbe avere delle responsabilità, perciò stanno cercando di insabbiare. C’è una totale mancanza di interesse da parte del governo e delle varie agenzie responsabili della sicurezza su tutta la faccenda».

Gli attentati hanno evidenziato la disfunzionalità del governo del paese, paralizzato dal conflitto fra il presidente Maithripala Sirisena e il primo ministro Ranil Wickremesinghe, che ha toccato l’apice nell’ottobre 2018, quando il capo dello Stato aveva cercato, pur non avendone i poteri, di sostituire il primo ministro con un’altra personalità politica a lui vicina, l’ex presidente Mahinda Rajapaksa. La rivalità fra i due esponenti di vertice del potere sarebbe il motivo della mancata circolazione fra le varie agenzie governative dei quattro allarmi trasmessi dai servizi di sicurezza dell’India, l’ultimo dei quali alle 6.45 del giorno di Pasqua, due ore prima delle esplosioni. E poi della creazione di due distinte commissioni d’inchiesta, una presidenziale e una parlamentare, che all’indomani degli attentati sono state costituite per indagare le responsabilità politiche della mancata prevenzione.

COMPLICITÀ DEI MUSULMANI CON GLI STRAGISTI

Le durissime dichiarazioni dell’arcivescovo di Colombo – che ha pure ricordato che gli attentati non hanno solo ucciso centinaia di persone compresi 45 bambini, ma hanno “creato” 176 orfani di uno o di entrambi i genitori – non sono una sorpresa per gli srilankesi, abituati agli interventi della guida cattolica su tutte le principali questioni politiche. Per restare alle più recenti, l’1 giugno scorso il cardinale ha firmato insieme ad alti esponenti buddisti (la religione maggioritaria nell’isola) un appello contro la concessione di una base militare alle forze armate degli Stati Uniti per operazioni anti-terrorismo, obiettando che ciò metterebbe in pericolo la sovranità nazionale.

Qualche giorno prima mons. Ranjith aveva inviato un messaggio di solidarietà al deputato e monaco buddista Athuraliye Ratana, che aveva iniziato uno sciopero della fame e chiedeva le dimissioni di due governatori provinciali e di un ministro del governo musulmani, accusati di comportamento omertoso di fronte al diffondersi del radicalismo islamico e alla crescita delle fazioni islamiste nelle loro regioni di origine e, nel caso del ministro dell’Industria Rishad Bathiudeen, di complicità vera e propria con gli attentatori. La protesta ha avuto talmente successo che oltre al ministro e ai due governatori si sono dimessi altri otto ministri e sottosegretari del governo di fede musulmana. Dimissioni di massa presentate sia come espressione di solidarietà col ministro a loro dire ingiustamente accusato, sia come gesto per placare l’ostilità contro la comunità islamica, oggetto non solo di diffidenza ma anche di attacchi materiali dopo gli eventi del 21 aprile. Nel maggio scorso per la prima volta a memoria d’uomo manifestanti cristiani hanno attaccato proprietà musulmane nella città di Negombo (teatro del più sanguinoso dei sette attentati suicidi del giorno di Pasqua, con 93 morti, di cui 27 bambini, nell’attacco alla chiesa di san Sebastiano) e causato la morte di un commerciante musulmano.

IL RUOLO DELL’ISIS

Col 7,4 per cento, quella cristiana è la più piccola delle minoranze religiose dello Sri Lanka, seguita dall’islam (9,7 per cento) e dall’induismo (12,6 per cento). Negli ultimi decenni lo schema dominante delle tensioni religiose nello Sri Lanka aveva sempre visto esponenti estremisti della maggioranza buddista  (70 per cento della popolazione) assalire luoghi di culto islamici o cristiani protestanti (che sono l’1,3 per cento della popolazione); con la diffusione del wahabismo nel corso dell’ultimo decennio attraverso la creazione di madrasse e moschee finanziate dall’Arabia Saudita, la minoranza musulmana si è in parte radicalizzata, e organizzazioni come National Towheed Jamaat, responsabile degli attacchi del 21 aprile, hanno dato vita a violenze contro luoghi di culto buddisti e cristiani, oltre che contro le confraternite musulmane sufi.

Nessuno li riteneva capaci di armare e addestrare nove attentatori suicidi (fra i quali il fondatore del gruppo, Mohamed Zahran) e di organizzare depositi di armi ed esplosivi in vari punti del paese. Nelle settimane successive agli attentati le autorità hanno arrestato 73 sospetti, 37 dei quali ancora in stato di detenzione, tutti srilankesi musulmani. Sono state ritrovate bandiere con le insegne dell’Isis (che in un messaggio del leader Al-Baghdadi e in una sua pubblicazione ha rivendicato gli attentati), ma nessun arrestato o denunciato è riconducibile a rapporti diretti con le centrali internazionali del terrore. L’unico esponente di  National Towheed Jamaat di cui si conoscono attività di portata internazionale è Abdul Latif Mohamed Jameel, il fallito attentatore dell’hotel di lusso Taj Samudra a Colombo, poi fattosi esplodere nei pressi di un motel, che nel 2014 si era recato in Turchia per passare in Siria a combattere con l’Isis, operazione che non gli sarebbe riuscita. Jameel non si era radicalizzato nello Sri Lanka, ma durante i suoi studi a Londra e in un successivo soggiorno in Australia. I musulmani srilankesi che hanno combattutto con l’Isis in Siria o in Iraq sarebbero una cinquantina. Non si sa quanti di loro siano rientrati in patria.

@RodolfoCasadei

Foto Ansa

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