L’equivoco di “Born in the U.S.A.” e quell’America rimasta senza voce

Di Valerio Pece
04 Giugno 2024
Quarant'anni fa usciva il settimo e più famoso album di Bruce Springsteen, un disco travisato a partire proprio dal testo della sua canzone più iconica, "nascosto" dai muscoli del rocker
Bruce Springsteen
Bruce Springsteen in concerto a Zurigo il 13 giugno 2023 (foto Ansa)

È il 4 giugno 1984 quando il trentacinquenne Bruce Springsteen pubblica Born in the U.S.A., il suo settimo album. Il disco diventa immediatamente un caso, un evento mediatico-culturale, un’educazione sentimentale per milioni di persone, dodici tracce che avrebbero influenzato la percezione mondiale di quegli Stati Uniti d’America citati nel titolo e nella copertina (quest’ultima con in primissimo piano il sedere jeansato e molto working-class del Boss).

Eppure malgrado le oltre 30 milioni di copie vendute, malgrado una tournée in grado di raccogliere 4 milioni di spettatori in ogni continente, malgrado il record di 7 singoli entrati nella top ten, Born in the U.S.A. rimane l’album degli equivoci. A iniziare dalla canzone d’apertura dell’omonimo album, tuttora – almeno per il pubblico generalista – il brano più iconico di Springsteen, quello che diffondendo l’immagine di un rocker erculeo, nerboruto e possente portò molti a non comprendere il significato del brano, il cui testo durissimo fu come “nascosto” dai muscoli del Boss.

«Anch’io sono americano»

Springsteen Born in the UsaLa vicenda narrata è quella di due fratelli di umili origini spediti nelle risaie del Vietnam a fare la guerra (la “dottrina del contenimento”, per la quale era necessario bloccare l’avanzata comunista in qualunque parte del mondo, fece sì che per la maggior parte degli americani si trattasse di una guerra assurda, in cui diventava difficile comprendere persino in cosa dovesse consistere un’eventuale “vittoria”). Uno dei due fratelli si innamora di una vietnamita ma muore in battaglia, l’altro (l’io narrante) riesce a tornare a casa vivo ma si ritrova solo e senza lavoro. Alla sua richiesta di aiuto, sia il responsabile della raffineria che quello dell’Associazione Veterani («my V.A. man») fanno spallucce («Son, don’t you understand?»). Non c’è posto per lui.

Così, a dieci anni dal ritorno a casa, troviamo il reduce vagabondare per l’America senza meta e senza futuro. E allora ecco che quell’urlo – “sono nato negli Stati Uniti!” – non solo ha il sapore fallaciano della rabbia e dell’orgoglio, ma avrebbe dovuto essere letto nell’unico modo possibile: «perché devo finire così se sono anch’io americano?». Per fugare ogni dubbio, nel giorno del suo 40esimo compleanno è bene rileggerne il testo, costruito come un tagliente cortometraggio.

“Nato in una città di morti
Il primo calcio che ho preso è stato quando ho messo piede a terra
Finisci come un cane che è stato malmenato troppo a lungo
E passi metà della tua vita a nascondere la verità
Nato negli USA
Sono nato negli USA

Sono finito in un piccolo guaio giudiziario dalle mie parti
Così mi hanno messo un mitra in mano
E spedito in una terra straniera
Per andare ad ammazzare i musi gialli
Nato negli USA
Sono nato negli USA

Torno a casa e alla raffineria
Il tizio delle assunzioni mi fa: “Figliolo, dipendesse da me…”
Vado dal tipo dell’Associazione Veterani
Mi dice: “Figliolo, non capisci?”

Avevo un fratello a Khe Sahn che combatteva contro i Vietcong
Loro sono ancora lì, lui è andato per sempre
Aveva una donna che amava a Saigon
Ho una foto di lui tra le sue braccia adesso

All’ombra del penitenziario
Tra le fiamme di gas della raffineria
Sono dieci anni che brucio per la strada
Non ho nessun posto dove correre, nessun posto dove andare
Nato negli USA
Sono nato negli USA

A regnare incontrastata è l’irriconoscenza. Ma se all’estero c’è l’alibi della lingua, l’America non avrebbe dovuto fingere di non capire. Alcuni si sono spinti a dire che lo stesso Springsteen avrebbe finito per sguazzare nel grande equivoco: scrivere e musicare una marcia patriottica, orecchiabile, popolare, potente, identitaria, mantenendo però la posa da rocker impegnato, col pugno alzato antiborghese e antimilitarista. Sul punto anche la critica si divide: per qualcuno il testo vergato dal cantautore è troppo esplicito e duro anche solo per ipotizzare che potesse essere frainteso, dall’altra la scelta di utilizzare, sul palco del tour mondiale che accompagnò il disco, il gigantesco vessillo a stelle e strisce, ha di fatto trasformato Springsteen in un patriota, nell’emblema della rinascita americana dopo l’impantanamento nel Vietnam e il conseguente ritorno di troppe bare avvolte dalla bandiera.

Reagan: «Il futuro degli USA è nelle canzoni di Springsteen»

Chi fece finta di non capire Born in the U.S.A fu certamente la politica del tempo. In quel clima da Guerra fredda, infatti, insieme alla saga antirussa di Rocky Balboa, a Ronald Reagan non parve vero di trovare l’inno perfetto, con quell’orgoglio urlato a favore dell’appartenenza americana, pronto a essere scagliato contro chiunque avesse osato mettersi di traverso. Fu così che il 19 settembre 1984, durante un comizio elettorale a Hammonton, nel New Jersey, Reagan nominò Springsteen nel tentativo di sfruttarne la nuova magica scia. Queste le sue parole: «Il futuro dell’America dimora nei mille sogni che sono nei nostri cuori; dimora nel messaggio di speranza che si trova nelle canzoni di un uomo ammirato da tanti giovani americani: Bruce Springsteen del New Jersey».

Reagan aveva bisogno dei voti di coloro che l’autore di No Surrender e I’m on fire cantava nei suoi brani: operai, cameriere, camionisti, categorie che non sempre coincidevano col suo elettorato. Per la sua rielezione al secondo mandato il presidente repubblicano condensò quindi il suo “sogno americano” in un breve e accomunante spot, Morning in America, in cui spiccavano i temi del libero mercato, della famiglia e della libertà religiosa.

In un’intervista a Rolling Stone, a stretto giro di posta Springsteen replicò: «Ho visto in tv lo spot di Reagan, “È mattina in America”, e mi sono detto, beh, certo, è mattina a Pittsburgh. Ma non è mattina sulla 125esima Strada a New York. Lì è mezzanotte, ed è come se in alto nel cielo ci fosse una luna funesta. Ecco perché quando Reagan ha fatto il mio nome l’ho percepita come un’altra manipolazione, e ho sentito il dovere di dissociarmi dalle parole gentili del presidente».

L’amore sviscerato per il Partito Democratico

La vicinanza alla gente del rocker di Long Branch, fatta anche di ingenti donazioni alle banche alimentari delle città in cui di volta in volta suonava con la sua E Street Band, nel tempo ha lasciato il posto ad un’adesione diretta, piatta e totalizzante al Partito Democratico, per i cui candidati il musicista non si è mai risparmiato. Il primo a ricevere il sostegno da Springsteen è stato John Kerry nel 2004. Quattro anni dopo, il cantautore si impegnerà per l’elezione del suo grande amico Barack Obama, mettendosi a sua disposizione anche nella rielezione del 2012.

È persino stato al fianco di Hillary Clinton (nel 2016), mentre nel 2020 Springsteen ha partecipato a uno spot per la campagna elettorale di Joe Biden, parlando sulle note di My Hometown, l’ultima delle 12 tracce di Born in The U.S.A. Il perché della scelta di quella ballata racconta quanto gli endorsement di Springsteen per i democratici siano non solo martellanti (anche a costo di stancare) ma anche tattici e per nulla lasciati al caso: lo spot era “dedicato” agli elettori di Scranton, città natale di Joe Biden («this is your hometown», recita il brano), situata per giunta in quella Pennsylvania che è notoriamente uno Swing State.

Gli sfottò di Trump a Springsteen

Le punzecchiature tra il cantautore e Trump sono note. Se Springsteen aveva attaccato il tycoon in più di un’occasione, anche durante la pandemia («Con tutto il rispetto, mostra un po’ di considerazione per la popolazione e per il tuo Paese: mettiti quella ca..o di mascherina», così, come un Burioni qualsiasi, il tono del cantautore verso l’ex presidente), Trump – facendo un chiaro riferimento all’altezza non esattamente esorbitante del musicista – aveva risposto di «non aver certo bisogno del sostegno del piccolo Springsteen».

Ma è dallo scorso 12 maggio che ogni inginocchiamento di stampo repubblicano verso il rocker più amato dagli americani si è definitivamente esaurito. È accaduto quando Donald Trump, durante la sua recente (e oceanica) manifestazione nel New Jersey, ha citato il nome di Springsteen, ma a differenza di Reagan non certo per elogiarlo. Da repubblicano anomalo qual è, Trump ha prima preso in giro i «cantanti liberal», e poi, ammiccando, ha aggiunto che il suo pubblico «è molto più numeroso di quello di Springsteen». Parole che pronunciate in quel Garden State che è il fortino del Boss e che nell’immaginario collettivo si identifica con lui, sono suonate come uno schiaffo. O una bestemmia.

Il Boss è senza voce (come l’America)

In questi giorni si è poi avverato il peggiore incubo dei fan del rocker: i concerti dell’1 e del 3 giugno allo stadio di San Siro (quelli del 40esimo anniversario di Born in the U.S.A.) sono stati ufficialmente rinviati «a causa di un brusco abbassamento della sua voce». «Ulteriori esami e consulti hanno portato i medici a stabilire che Bruce non potrà esibirsi per i prossimi dieci giorni», si legge in una nota.

Al di là delle rassicurazioni mandate da Springsteen alla città di Milano  (nonché dell’affetto di quei fan che, arrivati ormai in città per i concerti, si sono ritrovati alle Colonne di San Lorenzo per cantare le sue canzoni), la notizia di un Bruce “the Boss” rimasto afono non può non suonare come un cattivo presagio per un’America dilaniata da divisioni interne sempre più profonde. Un Paese che agli occhi del mondo ha perso molta della sua credibilità, che si prepara a quelle elezioni presidenziali che da alcuni anni somigliano sempre più a una “guerra civile”, e che quindi è alla disperata ricerca di una voce nuova.

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