Per smontare codici e affini bastab rileggere Manzoni

Caro direttore, con alcuni colleghi mi sono imbattuta nel testo di Teresa Buongiorno dal titolo L’uomo che fu Carlo Magno. Il romanzo, che ha vinto nel 1985 il premio Andersen per la letteratura per ragazzi, fin dall’inizio e in modo un po’ ambiguo, racconta la storia di Carlo Magno utilizzando in parte le nozioni storiografiche più accertate e in parte leggende che sostengono la discendenza diretta dei Merovingi da Gesù, in quanto il primo “dei re fannulloni” fu proprio il figlio della Maddalena, rifugiatasi in Francia, alla morte del marito. Siamo stupiti che un libro come quello della Buongiorno, che conosciamo come una fine scrittrice e colta medievalista, possa essere destinato a ragazzi delle scuole medie che hanno pochi strumenti per distinguere quanto sia frutto della leggenda e quanto faccia parte invece della storia vera e propria. Riteniamo in quanto insegnanti che quella del romanzo a sfondo storico sia una lettura molto interessante per i ragazzi, però, come ci insegna Manzoni nella lettera a Monsieur Chauvet, siamo convinti che la storia («realtà») non debba essere mescolata in modo ambiguo alla fantasia («invenzione») tanto da confondere le due parti. Ci lascia alquanto perplessi notare che un romanzo destinato ai ragazzi possa generare e sostenere tale ambiguità circa temi importanti che quando trattati da scrittori “per adulti” sono in grado invece di creare veri casi letterari, come il ben noto Codice Da Vinci.
Laura Vallieri, via internet

Caro direttore, sono capitata a Civitavecchia il 17 giugno, undicesimo anniversario della intronizzazione solenne della “Madonnina di Civitavecchia”, quella che pianse sangue nel corso del 1995 più e più volte, l’ultima nelle mani dell’incredulo – fino ad allora – vescovo. Le lacrime, soprattutto quando sono di sangue, ci lanciano come primo messaggio quello del dolore. Tuttavia, qualcosa di questo “dolore” mi rimanda a una persistente sensazione di “altro”. Ma cosa? Direi il caffè. Sì, il caffè che mi ha offerto la gentile padrona di casa prima di recarmi al santuario. Ci siamo ritrovate a parlare di figli, per la precisione di quelli persi – certo i più amati dal Cielo – in tenera età. Io parlavo del mio neonato che visse appena mezz’ora, giusto il tempo di sentirlo piangere e ricevere un battesimo d’urgenza, lei di una creatura mancata un po’ più grandicella, a sei anni, a causa di un tumore al troncoencefalo. Era una mattina molto afosa ed umida, ma non è stato il sudore a rigarci inconsapevolmente le guance, io pensando al suo dolore, lei pensando al mio. è proprio l’aria di Civitavecchia che porta le lacrime! Senza azzardare paragoni tra il dolore di Maria e il nostro, Maria sta di nuovo piangendo, lacrime normali questa volta, se quelle di una statua si possano mai definire normali, anche se poco, anzi pochissimo se ne parla per il dovuto rispetto alla volontà del vescovo locale. A Civitavecchia, quindi, si piange, si piange non per una sorta di disperazione, come per impotenza: si piange per la commozione davanti a quel che i figli potevano essere e non son stati, per quello che noi tutti, figli dell’unico Dio, possiamo essere e non siamo. Le madri, e – forse – la Madre, piangono per la consapevolezza di quanto grande, bella e piena di possibilità è la vita del proprio figlio. Quando anche costrette dal limite della nostra condizione umana, ce li vediamo svanire sotto le mani. Nostra Madre piange per la grandezza che noi siamo, nella quale Dio ci ha creati e poi redenti. è commossa da quanto diceva un appassionato del Signore (e degli uomini) che lei ha sicuramente tenuto molto vicino a sé: Giovanni Paolo II. Egli gridava con infinito amore: «Bisogna che l’uomo accetti la sua grandezza»! Ed invece siamo qui a contrattare le nostre cosucce quotidiane con noi stessi e con gli altri come se da esse dipendesse la verità del nostro destino. Una delle cose per cui ho notato che nella chiesetta di S. Agostino si prega di più è perché gli uomini recuperino “il senso del peccato”. Se non ritroviamo la percezione netta della grandezza per cui siamo fatti, e, quindi, della piccineria ordinaria con cui svendiamo la nostra dignità, non basterà tutto il sangue versato da un Dio amante della vita per salvarci. E, infatti, tramite Sua Madre questo sangue continua a scorrere. A me ha molto impressionato l’immagine concreta con cui Maria viene rappresentata in questa Madonnina. Il chiaroscuro è minimo, ma è vistosa la sua “quasi evanescenza”, che le viene senz’altro conferita dal colore perlaceo monocromo. Il risultato è una figura concreta sì, ma impalpabile come una visione celeste. A me, pertanto, ricorda una sorta di velo leggero: il velo oltre il quale si cela e si svela semplicemente il Tutto: una è la preghiera che, accanto a quella per la conversione del mondo, sale dal profondo del cuore davanti a questa particolare immagine di Nostra Madre: «Io, per meno di Tutto, non ci sto».
Carla Vites, Milano

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