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Sisma in Ecuador: «Non dimenticateci, è un momento intenso di verità che riguarda tutti»

Intervista a don Francesco Rizzo, parroco a Portoviejo: «Non ci è chiesto di sopportare, ma di riconoscere Chi dà senso alle nostre sofferenze. Come hanno fatto le suore che cantavano sotto le macerie»

Benedetta Frigerio
27/04/2016 - 2:00
Esteri
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Le suore che «hanno cantato sotto le macerie» per farsi forza in attesa dei soccorsi. Un popolo forte, una «fede da educare». E un terremoto «che rimette in moto la coscienza delle persone colpite». Così don Francesco Rizzo, parroco a Portoviejo, una delle zone più colpite dal terrificante sisma di sabato 16 aprile in Ecuador (oltre 700 morti, quasi 17 mila feriti, 21 mila sfollati), racconta a tempi.it la situazione del paese dopo la catastrofe.

Don Francesco, dove si trovava quando la terra ha cominciato a tremare?
Mi trovavo nella mia parrocchia, in un settore della città che, grazie a Dio, ha sofferto meno. Sono cadute solo una decine di case costruite sulla riva del fiume, dove il terreno era meno compatto. Mentre il centro, purtroppo, è come se fosse stato bombardato. Appena finita la lunghissima e forte scossa, che mi ha ricordato l’esperienza vissuta da bambino nel 1980 durante il terremoto in Irpinia, vicina a Vallo della Lucania dove abitavo, sono uscito dalla casa parrocchiale e facendo luce con il cellulare ho visto la polvere nell’aria: erano crollati alcuni pezzi delle pareti del campanile. A quel punto ho cominciato a percepire la gravità di ciò che stava succedendo. Gli amici che erano con me sono corsi dai loro familiari e io sono uscito a visitare subito le famiglie che erano per strada e che piangevano angosciate. Un folto gruppo di gente era raccolto nei pressi di una casa ridotta a un cumulo di macerie: vi erano rimaste sepolte parecchie persone, dato che nell’edificio si trovava anche un ristorante ed era sabato sera.

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Come avete reagito?
La gente è attonita. Non si ricorda una tragedia così a memoria d’uomo. Sono molte le famiglie che hanno perso tutto. In molti settori della città tuttora non c’è né acqua né luce. Ai lati delle strade di accesso alla città bambini e anziani attendono con secchi e bottiglie vuoti che arrivino le autobotti o altri veicoli con gli aiuti. Dalle altre regioni arrivano molte persone con carichi di cibo, vettovaglie. Assistiamo, e non per modo di dire, a una vera gara di solidarietà, sebbene ci siano anche gli aspetti negativi delle tragedie, perché queste situazioni tirano fuori il meglio ma anche il peggio delle persone. Sono molti, infatti, i casi di sciacallaggio, come gli assalti ai camion che portano alimenti.

Che contributo dà la Chiesa?
I sacerdoti stanno con la gente. Alcune parrocchie ospitano famiglie sfollate, distribuiscono viveri o hanno montato ambulatori di emergenza. Vicino alla nostra parrocchia c’è l’ex aeroporto dove le autorità pubbliche hanno creato una tendopoli con milleduecento persone sfollate. Con un gruppo di giovani andiamo tutti i pomeriggi a far giocare e cantare i bambini. Celebro la Messa con gli sfollati che mi accolgono contenti. In questa disgrazia riconoscono che Dio protegge il suo popolo. Che Dio è fedele.

Cosa le dice la vicenda della giovane suora irlandese morta mentre cercava di soccorrere delle persone, e di quella sopravvissuta mentre metteva al riparo il Santissimo Sacramento?
Suor Clare era mia amica, scherzavamo sempre quando ci incontravamo. Con lei sono morte cinque giovani che conosco bene perché frequentavano la parrocchia. Da sotto le macerie, in un paesino chiamato Playa Prieta, a pochi chilometri da qui, i soccorritori le sentivano cantare canti di lode al Signore, fin verso mezzanotte. Hanno conservato e comunicato la loro letizia contagiosa fino all’ultimo respiro.

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Dalle cronache si capisce che la generosità della popolazione è grande, ma come non lasciarla cadere?
È vero che c’è la tendenza a “aguantar”, cioè a sopportare tutto in modo fatalista. Ma la fede offre un’altra prospettiva: la circostanza che viviamo ha il senso di un passo che si fa, dunque di una crescita. La testimonianza delle suore, delle loro ragazze e di tanti che vivono con semplicità la carità fraterna è l’esempio di questa coscienza diversa. Non un sopportare, ma un riconoscere che c’è “Qualcuno” che raccoglie e dà senso alle nostre azioni e alle nostre sofferenze. I giochi che facciamo con i bambini, una specie di oratorio estivo, lì nell’aeroporto, vogliono essere semplicemente un aiuto a percepire questa positività ultima della vita.

Il vescovo di Riobamba, Julio Parilla, ha commentato la vicenda così: «È il momento di seminare speranza. Per disgrazia siamo esperti nel sopportare. Così a poco a poco la disgrazia va convertendosi in grazia».
L’esperienza di fraternità nel bisogno è la scoperta di una forza che supera l’impotenza di fronte alla natura. Un “di più” inaspettato, direi, la capacità di fare comunità. Questa è la risorsa che – se se ne prende coscienza – può permettere il risorgere del popolo che tutti ci aspettiamo. Sono stupito, per esempio, di non aver sentito reclami al governo o ad altre autorità. Non perché non siano da criticare alcuni esempi di inadempienze o di ritardi, ma perché è come se la fiducia sia riposta in qualcos’altro.

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Quali sono i bisogni della popolazione e come dovrebbe intervenire la comunità internazionale?
L’aiuto necessario è certamente la ricostruzione. Tuttavia più urgente ancora è una vera cooperazione tra vari soggetti: lo Stato centrale, le organizzazioni, le imprese, la comunità internazionale, la Chiesa con le sue strutture capillari come sono le varie Caritas e le parrocchie. In modo speciale, i Paesi e le organizzazioni che vogliono sostenere lo sforzo del nostro popolo devono esigere una vera trasparenza nell’uso di ogni forma di donazione o prestito. Infatti, stiamo già vedendo, purtroppo, come viene politicizzata ogni forma di intervento in favore delle popolazioni colpite dal sisma. Merci e alimenti sono a volte sequestrati per essere distribuiti unicamente dal governo, ci sono restrizioni per le organizzazioni che desiderano aiutare, e vere e proprie “risse” tra diverse istituzioni pubbliche per stabilire a chi spetta la gloria degli interventi. Occorre, al contrario fomentare un sano spirito di cooperazione e integrazione secondo il principio di sussidiarietà.

Perché è importante che non cali l’attenzione sulla tragedia che ha toccato l’Ecuador e di cui non si sente quasi più parlarle?
Perché si tratta di un momento intenso di verità per ogni persona. Davanti a un fatto simile le domande che sorgono nel cuore dell’uomo, oltre i sentimenti e le emozioni del momento, esigono di trovare ciò che dà solidità all’edificio della nostra vita, il centro dei nostri affetti, le ragioni che ci animano, i princìpi della convivenza. Qual è quella roccia sicura su cui costruire l’esistenza? Non è una domanda scontata. È il tremore continuo della coscienza umana.

@frigeriobenedet

Foto Ansa/Ap

Tags: ecuador
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