DAL NOSTRO INVIATO A DAMASCO (SIRIA)
Il traffico è debordante e caotico come in tutti i paesi arabi alla vigilia della festa per la fine del Ramadan, il sonoro dei concerti di clacson sostituisce l’abituale cupo sottofondo di colpi di artiglieria dal centro verso le periferie est e sud. Nelle ultime quattro ore dal nostro arrivo nella capitale siriana s’è udito solo un tuono in uscita. Eppure solo dieci giorni fa una gragnuola di colpi di mortaio e di razzi ha colpito principalmente i quartieri cristiani del centro, Al-Qasaa e Baab Touma, oltre a Baghdad Street, causando 5 morti e una dozzina di feriti.
SACCHI DI SABBIA. Gli obici sono piovuti sulle auto nelle strade principali ma anche nei vicoli, hanno ucciso automobilisti e ragazzini. Eppure dove fino a pochi giorni fa si incontravano detriti bruciati e macchie di sangue, oggi non si vedono più tracce e passano altri pedoni e altre automobili, come se niente fosse successo. La via a fianco della chiesa greco-ortodossa della Santa Croce, dove i razzi hanno centrato e incendiato tre auto causando una vittima, è ripulita. Un anno fa un colpo di mortaio, proveniente dall’adiacente quartiere ribelle di Jobar, colpì la chiesa durante la celebrazione di un battesimo e uccise sul colpo un ragazzino che partecipava alla cerimonia. Duecento metri più avanti c’è la scuola cattolica di Nostra Signora di Lourdes: colpiscono le triplici file di sacchi di sabbia disposti scrupolosamente dietro ai vetri di tutte, tutte le finestre che si riescono a vedere.
TRIBUTO DI SANGUE. Zahran Alloush, il comandante di Jaysh al-Islam che da due anni terrorizza la Damasco sotto controllo governativo dalle sue basi nei quartieri di Jobar e di Douma, ha avuto il suo inutile tributo di sangue. Le linee del fronte sono rimaste ancora una volta immutate, altre vite sono andate perdute o sono state menomate. La città ha ripreso a respirare, parcellizzata nei suoi tanti posti di blocco che, tranne quello principale all’ingresso della capitale, hanno assunto ritmi di lavoro abitudinari. Ma basta grattare un po’ sotto la superficie fatta dei soliti venditori ambulanti, che non si sposterebbero nemmeno se cadessero bombe atomiche, e delle impiegate dei ministeri, vestite come le commesse dei negozi a Milano che sfiorano le musulmane praticanti intabarrate nelle varie velature consentite, per scoprire che la normalità non è per niente normale.
QUANTO COSTA ANDARSENE. «Settemila e cinquecento euro a testa! Ma vi rendete conto! Con quattro persone da portare in Europa, dove la trova un siriano comune una cifra del genere?». Il taxista non sembra raccontare balle. Davvero sono queste le cifre che i trafficanti chiedono nella capitale per garantire ad aspiranti profughi l’arrivo alla destinazione finale, in Germania. I soldi vanno consegnati a un garante che li trasmette ai faccendieri (un viaggio così lungo è appaltato fra varie organizzazioni) solo a meta raggiunta. Altrimenti tornano nelle mani dell’aspirante fuggiasco. Ma intanto vanno messi sul tavolo in contanti. Continua l’esodo dei giovani che dovrebbero rispondere alla chiamata sotto le armi. Una decina di migliaia di loro ha risposto all’ultimo appello e si è presentato a difendere la patria, anche un numero non indifferente di donne si sono recate agli uffici di leva come volontarie, ma il fenomeno della renitenza alla leva, dopo quattro anni di guerra che hanno causato 230 mila morti, è evidentemente diffuso.
PAGHE DEI RIBELLI. Questa è una guerra civile davvero strana, dove i ribelli sono pagati molto meglio dei soldati governativi: dopo i primi 18 mesi di leva obbligatoria, durante i quali il soldo del soldato è trascurabile (30 dollari circa), i mesi successivi sono retribuiti in forma di stipendio a tutti coloro che sono sottoposti alla ferma a causa della guerra in corso. La cifra, per i soldati semplici e i sottufficiali, non supera i 150-200 dollari mensili. Ora, un ribelle di Jabhat al-Nusra, gruppo armato collegato ad Al-Qaeda ma ben visto anche da sauditi, turchi e qatarioti, pare guadagni 400 dollari al mese. Mentre i terroristi dell’Isis toccano i 500 dollari: potenza del califfato.
KALIMATUNA. La buona notizia della giornata è l’apparizione sui giornali di un comunicato dal titolo “Kalimatuna”, cioè “La nostra parola”, sintesi di un seminario e di un mese di lavori di gruppo di un centinaio di esponenti della società civile che disegnano una specie di “terza via” per la rinascita della Siria. Promosso dalla deputata cristiana indipendente Maria Saadeh, Kalimatuna vuole essere un progetto a lungo termine di trasformazione dello Stato ma anche della società siriana. Fra le sue richieste, «l’arresto immediato della guerra criminale contro il popolo siriano, l’abrogazione delle ingiuste sanzioni unilaterali come preludio a una pacifica soluzione politica in Siria, l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e punizioni per chi non le rispetta, misure per proteggere il patrimonio archeologico e l’eredità culturale siriana, specialmente il ricco tessuto sociale». Si chiede pure la riapertura di tutte le ambasciate siriane all’estero e il ripristino delle relazioni diplomatiche.
«LA SIRIA È QUI». «Ci chiamiamo “La nostra parola” e il nostro sito internet si chiama “La Siria è qui”, perché non vogliamo che altri parlino dei siriani a nostro nome, chi parla in nostro nome non ci rappresenta, noi vogliamo rappresentarci da soli», dice Maria Saadeh. «Lo Stato siriano non è in grado di riformarsi da solo, ma allo stesso tempo la società siriana non è matura per riformare lo Stato. Vogliamo approfittare della situazione creata dalla guerra per cominciare un lavoro di maturazione della società civile, che domani sarà in grado di farsi carico della riforma dello Stato. Per questo a Kalimatuna partecipano persone di partiti diversi, di opposizione e filo-governativi, e di tutte le religioni presenti nel paese». Fuori dall’ufficio della giovane parlamentare il silenzio delle artiglierie prosegue. Parrebbe un segno beneaugurante.
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