
Sigilli di libertà
Il fatto che “diavolo” e “dialogo” abbiano la stessa radice, dal greco “dia” (“attraverso”), fa pensare che forse il dialogo è lo strumento preferito da ogni belzebù per entrare dove prima non c’era. Coraggioso il quotidiano londinese Al Sharq Al Awsat, per il quale «il rapimento dei giornalisti francesi è una lezione per chi pensa che possa essere neutrale nella guerra al terrorismo», il cui unico scopo «è uccidere». Al Hayat si domanda perché nessuno nel mondo arabo si è levato contro il massacro dei dodici nepalesi, com’è avvenuto per i francesi, mentre il settimanale irakeno Al Ahali definisce Chirac «il principale aiuto per le dittature del Terzo Mondo». Poi le parole dell’ex ministro dell’Informazione del Kuwait, Ben Tefla, per cui «non una sola fatwa è stata invocata per l’uccisione di Bin Laden» dopo l’11 settembre. Ora che anche Salman Rushdie è al tramonto (lui che dovrebbe baciare la terra calpestata dagli americani che lo proteggono va dicendo che gli Stati Uniti non sono più un paese libero), ora che il Jerusalem Post chiede dove siano i nuovi Vaclav Havel e Alexander Solzenitsyn, ci siamo messi alla ricerca di qualche personaggio degno di una fatwa, vero sigillo di libertà. Insieme al Nobel Elias Canetti, che nella Provincia dell’uomo, anno 1977, scriveva che «nell’Islam il comando di Dio ha in sé molto di una condanna a morte», ne va rivolta una allo storico di Basilea Jacob Burkchardt, che nelle Riflessioni sullo studio della storia (1851) parla dell’islam come di una «religione dalla scarsa interiorità» e dalla «totale impenetrabilità a qualsiasi influsso», un’«innata presunzione e illimitata arroganza», Maometto è «fanatico all’estremo» e un «semplificatore radicale» che «ogni libertà riempie di sacro furore». C’è quel misogino di Arthur Schopenhauer, che nel Mondo come volontà e rappresentazione definisce il Corano «quel cattivo libro sufficiente per soddisfare il bisogno metafisico di milioni e milioni di uomini, per diventare il fondamento della loro morale e di un notevole disprezzo della morte». Oltre al pornografico Michel Houellebecq, che in Piattaforma aveva profetizzato la strage degli australiani a Bali, c’è l’inglese Isaiah Berlin, che ha parlato dell’«oceano di sangue fino al regno dell’amore» che sgorga dalla voce degli ayatollah. Ricordiamo che un iraniano, rivolto all’altro Nobel da onorare con una fatwa, V.S. Naipul, disse dopo il ritorno di Khomeini: «Ciò che Stalin ha fatto in Russia dobbiamo farlo in Iran. Dobbiamo ucciderne molti». Berlin, che scappò dalla Russia prima che arrivassero i nazisti, è la preda ideale per chi cantava «in paradiso Allah, sulla terra Hitler». Altre due fatwe, una per il più geniale degli hegeliani, Franz Rosenzweig, che nella Stella della redenzione descrive la potenza di Maometto «pari a quella di un despota orientale»; l’altra per un musulmano medievale, Ibn Khaldun, che nella Storia universale del XIV secolo, quasi rivolto ai mullah collettivisti di Tehran, spiega che vessare la proprietà privata significa uccidere la speranza che abita il cuore di ogni uomo. Alla gogna John Locke, che nella Costituzione delle due Caroline del 1760 inserì un articolo che tutelava “ebrei, pagani e dissidenti”, la feccia nei paesi islamici. Pascal mandiamolo al rogo, visto che scrisse che «non la sconfitta dei peccatori, se hanno sofferto e lottato, è votata all’inferno ma l’abominevole perfezione dei virtuosi». Scorticamento per Alexandre Dumas, che nella sua Guerra santa (1858) aveva capito tutto della Cecenia di Basaiev, e per Voltaire, che nel Dizionario filosofico chiede: «Che cosa rispondere a un uomo che è sicuro di meritare il cielo scannandovi?». Seguendo il metodo collaudato da Ibn ‘Abd al-Wahhab nel XVIII secolo, molto prima di Ernst Röhm, di bruciare i libri “corrotti e impuri”, sarà facile sbarazzarsi di questi autori sacrileghi e blasfemi, di «uccidere i morti», come scrisse Hölderlin. Una fatwa anche per quella sconcia della Statua della Libertà, che vorrebbe accogliere «i tristi relitti delle vostre rive brulicanti». Last but not least, Joseph de Maistre, che nel ’700 scrisse: «La terra, perennemente intrisa di sangue, non è che un immenso altare sul quale tutto ciò che vive deve essere immolato all’infinito, senza misura, fino alla consumazione delle cose, all’estinzione del male, fino alla morte della morte». Aveva già scrutato negli occhi dei tagliagole di Algeri e Fallujah?
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