«Senza cristiani non c’è Libano»
Grazie al sostegno di Orizzonti e di Romagna Solidale l’inviato di Tempi Rodolfo Casadei si trova in Libano. Qui trovate la seconda delle sue corrispondenze per il sito, che lasciamo aperta alla lettura anche dei non abbonati. Il reportage completo potrà essere letto sul prossimo numero di Tempi mensile. Qui la prima puntata.
Beirut – La voce femminile secca e alterata risuona per tutto l’ufficio del giudice e ben oltre la porta di legno e vetro. La sequela di invettive e di lamentele culmina col più sanguinoso degli insulti: «Mio marito non è un vero uomo!». Il marito in questione, anzi l’ex marito, non muove un muscolo, impassibile e remissivo nel suo volto calmo e baffuto. Ha appena recitato la formula del divorzio, così come ha fatto quella che da questo momento è la sua ex moglie. Quando escono dalla sala addirittura le apre la porta e le cede il passo, benché lei non si sia affatto calmata.
Mohamed Nokkari, giudice del tribunale sunnita per le cause civili del quartiere di Tarik el Jadideh, è uomo di grande esperienza non solo giuridica ma anche psicologica e sociologica. «Il numero dei divorzi si è impennato in questi ultimi tre anni, a motivo della crisi economica e del confinamento a causa del Covid. All’esasperazione per le lunghe convivenze forzate si è aggiunta l’incapacità finanziaria del marito di mantenere la famiglia, di pagare l’affitto e la scuola per i figli. Per avere meno spese le coppie si dividono tornando a vivere presso i rispettivi genitori, i rapporti si allentano e si arriva facilmente al divorzio. In precedenza c’era stata l’ondata dei divorzi per “infedeltà virtuale”, figli di Facebook e di Whatsapp: le persone sposate non sanno gestire le tentazioni informatiche, inviano messaggi compromettenti a uomini e donne che hanno conosciuto online, a volte filmati in cui si denudano, il coniuge lo scopre e chiede il divorzio. Il primo storico forte aumento dei tassi di divorzio all’interno della comunità musulmana sunnita c’era stato quando le donne hanno cominciato a lavorare fuori di casa, a disporre di finanze proprie, a viaggiare sole».
Abbigliamento femminile in tribunale
Nokkari non è affatto un bigotto né un nostalgico del tempo andato. Interpretando al meglio lo spirito libanese del “vivere insieme”, è stato promotore congiuntamente ad esponenti cristiani e sciiti della ufficializzazione della festa dell’Annunciazione di Maria come festività nazionale islamo-cristiana il 25 marzo. Nel 2010 è stato insignito del premio Onu Sergio Vieira De Mello per il dialogo interreligioso. È perfettamente consapevole delle dinamiche sociali in atto all’interno della comunità sunnita (che rappresenta fra il 27 e il 30 per cento della popolazione libanese), di cui è un sintomo l’abbigliamento delle donne che si rivolgono al suo tribunale: tutte le querelanti indossano l’hijab o altro velo, ma la maggior parte in maniera scorretta, lasciando scoperta parte della capigliatura; segno che abitualmente, nella vita quotidiana, non lo portano, ed è solo per rispetto della sede giudiziaria religiosa che quel giorno lo indossano.
Del resto è quello che si nota facendo due passi nel quartiere popolare, per niente sofisticato, di Tarek el Jadideh, sunnita quasi al cento per cento: donne velate e donne senza velo si equivalgono numericamente, e nessun niqab (velatura integrale che copre anche mani e volto) si intravvede all’orizzonte; un panorama ben diverso da quello del vicino Egitto. Del resto all’interno stesso del tribunale sciaraitico le cose non vanno come ci si potrebbe immaginare: nella successione delle udienze si fa notare una giovane avvocata stile pantera, tacchi alti, pantaloni e corpetto nero attillato, rossetto accentuato e capelli liberi e fluenti mesciati di biondo. E questo è un tribunale dove si applica la sharia alle cause civili… (matrimoni, eredità, successioni, ecc.).
Se lo Stato fosse laico…
«Il confessionalismo va abolito a livello politico e mantenuto a livello religioso», dice Nokkkari esprimendo il suo punto di vista. «Non ha più senso ripartire i posti di potere in base all’appartenenza religiosa, devono governare e amministrare i più capaci, solo le capacità individuali devono contare. In passato il confessionalismo politico aveva senso come soluzione per la salvaguardia delle comunità, ma oggi non più. Deve restare il patrimonio religioso rappresentato dalle 18 diverse identità religiose, perché è la specificità del Libano. Io sono favorevole al mantenimento delle scuole e dei tribunali confessionali, ma con dei cambiamenti. Lo Stato dovrebbe farsi carico degli attuali tribunali sciaraitici e canonici, musulmani e cristiani, e affiancare al diritto di famiglia di cristiani e musulmani anche un diritto di famiglia strettamente civile per i non praticanti e per i non religiosi; le persone che intentano una causa dovrebbero essere poi libere di rivolgersi ai giudici del diritto sciaraitico o canonico, oppure a quelli del diritto civile non religioso. Se lo Stato fosse interamente laico, ci sarebbe un pericolo di estinzione per le comunità più piccole. Io immagino un sistema intermedio fra lo Stato laico e il sistema confessionale attuale».
Fouad Abou Nader, ex comandante in capo delle Forze libanesi, con Rodolfo Casadei (Foto Tempi)
Sempre meno cristiani
Un’altra persona preoccupata di conservare l’identità religiosa nel mentre che si modernizza e si laicizza lo Stato, e con essa la specificità del Libano, è Fouad Abou Nader, presidente della Ong Nawraj, che ha come scopo sociale il mantenimento della presenza cristiana in Libano. Nader è stato niente meno che comandante in capo delle formazioni combattenti delle Forze Libanesi durante la guerra civile (1975-1990) fra il 1984 e il 1985; oggi si dedica anima e corpo all’obiettivo che nella sua visione solo può garantire la pace in Libano, e cioè la permanenza del più alto numero possibile di cristiani nel paese.
Mentre infatti al momento dell’indipendenza (1943) i cristiani costituivano la maggioranza assoluta della popolazione libanese (52 per cento), oggi la loro percentuale è variamente stimata fra il 30 e il 40 per cento del totale (non si tengono censimenti ufficiali delle affiliazioni religiose dal 1932!).
I cristiani vivono con tutti
«È importante – dice a Tempi – che il numero dei cristiani in Libano resti significativo perché senza cristiani non c’è Libano, cioè non ci sarebbe l’unico paese di questa parte del mondo che non ha una religione di Stato, dove cristiani e musulmani sono uguali davanti alla legge, dove non ci sono cittadini di seconda classe, l’unico al mondo dove cristiani e musulmani festeggiano insieme l’Annunciazione a Maria. Oggi il grande problema politico del Medio Oriente è il conflitto fra sunniti e sciiti, che ricorda le guerre di religione europee. Noi cristiani siamo l’elemento di moderazione che può impedire a questo conflitto di precipitare. In Libano ci sono 1.611 villaggi, ma in nessuno di questi convivono sunniti e sciiti, oppure drusi e sciiti, oppure drusi e sunniti. Ma ci sono tanti villaggi dove i cristiani convivono coi sunniti, o con gli sciiti, o con i drusi. Noi siamo il ponte fra le diverse comunità religiose».
Per rendere convincente il suo ragionamento Nader fa l’esempio di una mediazione fra comunità religiose favorita da lui e da Nawraj. «Nel 2014 c’è stato un attacco di Daesh (lo Stato Islamico) proveniente dalla Siria nella zone di Arsal, nel nord-est del Libano, e 41 soldati libanesi sciiti sono stati presi in ostaggio dai terroristi, mentre 3 venivano uccisi immediatamente. Per rappresaglia gli sciiti della regione hanno rapito un numero equivalente di sunniti, e hanno minacciato di trucidarli se succedeva qualcosa agli ostaggi sciiti. Noi abbiamo mobilitato il sindaco cristiano di Ras Baalbek, che ha contattato il sindaco sunnita di Arsal e il sindaco sciita della cittadina di Hermel e si è offerto di mediare uno scambio di prigionieri. La mediazione è andata a buon fine, e gli ostaggi delle due confessioni islamiche sono stati scambiati a Ras Baalbek e sono tornati a casa sani e salvi».
«Questa città sta perdendo la sua anima»
Un’altra personalità originale che vuole preservare la specificità libanese, su un piano diverso ma complementare a quelli di uomini come Mohamed Nokkari e Fouad Abou Nader, è Suheil Mneimneh, presidente della Beirut Heritage Society, una fondazione che ha per obiettivo la conservazione del patrimonio architettonico e culturale in senso lato della città di Beirut, con particolare attenzione alla musica e alla letteratura popolare, ai paesaggi urbani, agli edifici storici. Organizzata in comitati, l’associazione organizza visite guidate di scolaresche nella città vecchia, allestisce mostre fotografiche, celebra anniversari, premia personalità viventi, commemora grandi figure trapassate, stampa libri come uno recentissimo, fotografico, sulle decine di sale cinematografiche di Beirut (ma anche di altre località libanesi) che hanno chiuso da tempo i battenti.
«Questa città sta perdendo la sua anima», spiega sconsolato. «La ricostruzione dopo la fine della guerra civile in gran parte non è stata rispettosa dell’identità di questa città, e non parlo di storia, ma di tessuto sociale. Quando gli appartenenti alla generazione che ha vissuto la guerra civile visitano i quartieri ricostruiti da Solidere (la grande impresa edilizia legata al primo ministro Rafic Hariri – ndr) dove loro abitavano, dicono tutti: “Questa non è Beirut, questa è un’altra cosa, e noi non possiamo adattarci”. Non possiamo fermare la modernizzazione, ma questo non può avvenire a spese del tessuto sociale, a spese degli “heritages sites”, luoghi che meritano di essere trasmessi da una generazione all’altra. Ci sono leggi che dovrebbero proteggere questo patrimonio, ma sono ritagliate su misura per gli interessi degli speculatori edilizi e dei loro protettori politici, oppure semplicemente non vengono applicate. Contro tutto questo noi ci battiamo, e la gente ci appoggia, come dimostra il successo dei video che pubblichiamo sul nostro canale Youtube. Perché senza eredità non c’è identità».
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