«Il racconto mi sembra esemplare sotto molti punti di vista, sia per l’efficacia narrativa sia per la continenza nella rappresentazione della violenza. Nonostante il film parli di cose terribili, riesce a mantenere sempre un tono molto delicato. Il regista è riuscito a darci una visione d’ambiente non solo accurata dal punto di vista storico ma anche verosimile e credibile». Così Roberto Festorazzi, ricercatore storico impegnato da anni nella ricostruzione di ciò che è accaduto nell’immediato dopoguerra, descrive il film Il segreto d’Italia (qui la recensione e l’intervista al regista), visto in esclusiva per tempi.it.
La pellicola ricostruisce per la prima volta l’eccidio di Codevigo, un piccolo comune del padovano dove, tra il 29 aprile e il giugno 1945, fu ucciso un numero imprecisato di vittime (tra le 118 e le 365 persone) ad opera delle brigate partigiane di stanza nella zona (la Garibaldi e alcuni distaccamenti della Cremona). Si tratta di una vicenda dimenticata che per oltre 60 anni è stata ricostruita solo da pochissimi storici. Per Festorazzi il film ha il merito di ricostruire anche il contesto umano in cui avvennero i fatti: «Un mondo contadino che si è trovato improvvisamente travolto da qualcosa che non riusciva nemmeno a valutare. Come un animale che non riesce a fiutare l’odore della tempesta, e viene spazzato via».
Cosa ne pensa del film Il segreto d’Italia?
Si tratta di un film molto interessante e molto ben costruito, con attori tutti veramente straordinari. Un film altamente drammatico, non privo di una sua intima cifra poetica; in questo senso si tratta senz’altro di un’opera di grande valore artistico. Tutta la narrazione è dominata dal senso angoscioso di una catastrofe incombente, come se i protagonisti percepissero in anticipo, e con indicibile sgomento, la minaccia apocalittica che grava su di loro. Sono tutti personaggi che solidarizzano tra di loro, e vanno a morire abbracciati, sospesi nel vuoto, davanti a un abisso di orrore. È come se con loro finisse definitivamente un’epoca, quella che si potrebbe definire “la civiltà del timore di Dio”, nella quale, nonostante le alterne vicende politiche, gli uomini e le donne sapevano di poter contare sulle risorse di madre natura, nell’atavica convinzione morale che il favore della terra non dovesse mutare mai e che nessuna forza oscura potesse intervenire a turbare l’equilibrio tra l’uomo e il creato. Nel film è protagonista una famiglia contadina, i Martin: riassumono le virtù e la tenacia di questa civiltà contadina, che nelle sue espressioni migliori è una civiltà fondamentalmente cristiana. In quei giorni, questi agricoltori, costruttori di una società solidale, si sono visti spazzar via da un’ondata di violenza che non ha eguali in natura, perché non ha nulla a che vedere con le forze naturali, ma è violenza cieca e ideologica, cioè espressione “perfetta” del male nella sua accezione satanica: il “male assoluto”. Gli uomini e le donne di Codevigo, e mi riferisco in particolare al capofamiglia Martin, che ad un certo punto del film rischia di fare una brutta fine, hanno stampato negli occhi l’orrore che provano di fronte a questa dimostrazione di profanazione della persona umana. Qualcosa di simile a quello che provarono le vittime dei lager. Non osavano credere che essere umani potessero osare tanto, nel colpire dei loro simili, giudicati “nemici” o inferiori.
L’Associazione nazionale dei partigiani (Anpi) ha bocciato la pellicola. Per l’Anpi «il film è confuso e contraddittorio nel rapporto fra passato e presente, l’interpretazione della maggioranza degli attori è approssimativa e dilettantesca». Dopo questa dichiarazione, Il segreto d’Italia è stato distribuito con fatica solo in pochissime sale.
Ho trovato molto credibili gli attori. Anzi, sapendo che il film è stato prodotto con un budget limitato, appena 230 mila euro per altro tutti finanziati da privati, mi sono chiesto come il regista sia riuscito comunque a realizzare un opera così notevole. Ho saputo che i legali degli eredi del partigiano Arrigo Boldrini, che comandava la brigata Garibaldi, hanno chiesto al regista del film di visionare in anteprima l’opera. L’ho trovato un fatto orribile. Per me è una cosa da regime sovietico, inquietante, perché lascia supporre che si volesse esercitare una censura preventiva su un’opera artistica.
Ricostruisce molto bene dal punto di vista storico quello che è accaduto. Già nella prima metà del film, che presenta il contesto dei fatti, si ricostruisce molto bene quello che è accaduto realmente nell’Italia degli ultimi scorci del fascismo. C’è stata una intera nazione che si è trovata a non comprendere sino in fondo cosa sarebbe accaduto ai fascisti o ai presunti tali. È chiaro che il film non vuole raccontare ciò che è avvenuto nelle stragi, lasciando poi allo spettatore o allo studioso il compito di approfondire. Riguardo a Codevigo, Giampaolo Pansa nel Sangue dei vinti scrive degli “squadroni della morte”: ci furono gruppi di partigiani che rastrellavano interi paesi, poi uccidevano le persone, e le gettavano nei fiumi per occultarne i cadaveri. Codevigo si trova sulle rive del Brenta, ed è lì che vennero buttati i corpi. Ma questo è accaduto anche nel ravennate, in Veneto, e nel comasco.
Subito dopo il giugno ’45, però, su Codevigo furono avviate delle indagini che culminarono in 24 processi penali. Tuttavia, malgrado anche il ritrovamento di una fossa comune, tutti gli imputati furono assolti, compreso il comandante Boldrini “Bulow”.
Non è mai stato possibile dire con chiarezza che responsabilità abbia avuto il comandante Boldrini nell’eccidio di Codevigo, ma in tutta la storia di quei giorni è sempre stato difficile risalire nella catena di comando e ritrovare le responsabilità: al massimo si riesce a risalire all’identità di singole persone che venivano di fatto “scaricate” dai vertici partigiani. Questo, ad esempio, è quello che è accaduto analogamente nelle indagini sull’oro di Dongo, o sulla morte di Mussolini stesso. Il fatto che a Codevigo queste stragi siano andati avanti per mesi, rileva però un fatto particolare.
Cioè?
Il Partito comunista, forza egemone della Resistenza, dagli ultimi giorni di aprile del 1945 gestì una politica delle stragi che fu sistematica, premeditata, pianificata. Non si trattò, come si è cercato di far credere, di episodi isolati, vale a dire di singole manifestazioni di eccesso violento scaturito da odii e risentimenti personali. Parlare soltanto di “regolamenti di conti”, come certa storiografia continua a fare, significa negare la realtà. E la realtà dice che il Pci, in tutto il Nord Italia, gestì una politica del terrore, che aveva lo scopo di appiccare ed estendere il rogo di una rivoluzione rossa. Nella peggiore delle ipotesi, cioè nel caso in cui non fosse risultato possibile prendere il potere per via rivoluzionaria, il partito di Togliatti si era comunque, come dire?, portato avanti nel lavoro. Con le stragi, infatti, non soltanto si colpì il nemico fascista già sconfitto, ma si intese decapitare, umiliare, la classe borghese che avrebbe ostacolato la marcia trionfale dei comunisti verso il potere. Ecco dunque esplodere la spirale del terrore contro proprietari terrieri, industriali, notabili, antifascisti moderati di area cattolica, liberale, socialista, sacerdoti. Sono accaduti numerosi episodi simili a quello di Codevigo. Ricordo, tra altri, anche la strage di Schio, la “volante rossa” a Milano (che prosegue fino al ’47), la “corriera della morte” del savonese, persino il “post-Dongo”. Tra le vittime c’è stato di tutto. Mascalzoni fascisti, reduci o persone semplicemente sospettate, che in realtà con il fascismo non c’entravano nulla, che erano però vittime dell’odio di classe. Tutti erano possibili obiettivi di una grossa pulizia “politica”. Andavano cancellati.