Se pure il sufi “pacifista” diventa bombarolo

Di Eid Camille
03 Maggio 2007

Uno sconcertante sviluppo nella guerra in Iraq è passato quasi inosservato sui mass media occidentali: l’incremento delle rivendicazioni di attentati contro le forze americane da parte del sedicente “Esercito della confraternita naqshibandi”. Le varie confraternite del sufismo, come viene chiamato il misticismo islamico, erano finora considerate l’espressione di quella tendenza spirituale dell’islam che ha come scopo il ritorno dei musulmani all’autenticità perduta della fede. Una spiritualità così marcata rispetto alla sfera politica dell’islam da determinare, in alcuni paesi islamici, la messa al bando del sufismo, considerato un’eresia. Ed è in questa prospettiva che si può comprendere la diffusione nelle società occidentali di esperienze simili. In Italia i sufi (molti dei quali sono italiani convertiti) fanno leva sulla domanda di sacro presente ma largamente inevasa in ampi strati della società. Un’offerta di risposte trascendenti, questa, che trova terreno fertile anche in molti altri paesi d’Europa, sia tra atei e agnostici, sia tra molti cristiani delusi dal comportamento di un clero non sempre capace di rispondere alle loro esigenze umane e spirituali.
Il coinvolgimento di una confraternita (una tra le tante, ma comunqe la più nota) nel conflitto iracheno non rischia forse di intaccare ora questa immagine di spiritualità islamica? Sarà ancora possibile fare la distinzione tra i sufi “pacifisti” e i radicali che contemplano il ricorso alla violenza e all’azione militare? E cosa ne pensano i sufi di casa nostra? Domande che esigono risposte chiare nel momento in cui il dibattito sull’esistenza o meno di un “islam moderato e non violento”, di cui l’islam sufi è parte integrante, è ancora aperto. [email protected]

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