«Seguendo rigorosamente la dottrina marxista-leninista Chruscev concluse che in regime socialista non può esservi tra la gente coscienza antisocialista. La coscienza è determinata dall’esistenza. Né ci potevano essere altri modi di pensare. La conclusione era semplicissima: se non era possibile spiegare questi fenomeni come una eredità del passato o una diversione dell’imperialismo mondiale, essi erano semplicemente la manifestazione di una malattia psichica»: così scriveva Vladimir Bukovskij ne il suo Il vento va e poi ritorna nel 1978.
Intellettuali di ogni tipo furono coinvolti nei programmi psichiatrici per dissidenti del regime sovietico: scrittori come Vladimir Bokovskij, Boris Pasternak, Andrei Sinjaskij o Aleksander Solzenicyn o scienziati come il matematico Natan Sharansky o il fisico Andrej Sacharov furono trattati come pazienti psichiatrici poiché si dimostrarono restii ad assorbire, interiorizzare la mentalità totalitaria del socialismo sovietico.
Roba passata? Pagine di storia?
Si spera di sì, anche se un recente studio, pubblicizzato perfino dall’Espresso lascerebbe intendere di no.
Lo studio dal titolo Psychoticism, immature defense mechanisms and a fearful attachment style are associated with a higher homophobic attitude pubblicato sul The journal of sexual medicine nel settembre 2015, infatti, avrebbe dimostrato che chi è omofobo è affetto da disturbi mentali, poiché gli atteggiamenti omofobici sarebbero strettamente connessi con meccanismi psicotici, di difesa nevrotica e di fenomeni depressivi.
Bisogna, tuttavia, dare per scontata, nonostante non lo sia, l’esistenza dell’omofobia, oltre che la chiarezza del piano semantico e logico-concettuale che essa presuppone, e, soprattutto, che essa sia effettivamente una patologia psichiatrica.
Ma chi è esattamente omofobo? Come si manifesta l’omofobia?
Oggi come oggi, l’omofobia sembra racchiudere una vasta ed ampia gamma fenomenologica che spoletta tra il comportamento violento concretamente lesivo dell’integrità fisica altrui, fino, addirittura, al semplice pensiero di chi, a torto o a ragione, ritiene di non dover adattare la propria coscienza e la propria mentalità al pensiero genderista.
Comunemente, infatti, è ritenuto omofobo chi non si allinea alle pretese delle comunità Lgbt; chi ritiene che le coppie omosessuali, per quanto legittima possa essere la loro dimensione sentimentale, non possano avere alcun riconoscimento giuridico poiché mancanti di quella rilevanza pubblica che invece ha l’unione tra uomo e donna in virtù dell’apertura alla procreazione; chi si oppone alla devastante calamità antropologica dell’ideologia gender; chi professa la propria convinzione sulla famiglia fondata sull’unione di uomo e donna nel matrimonio monogamico in base alle proprie postulazioni religiose o perfino prescindendo da esse; chi non vede la vita secondo il filtro policromo dell’arcobaleno pansessualista.
Insomma, chi ribadisce che la famiglia naturale è quella che nasce dall’unione di uomo e donna nel matrimonio monogamico, chi sottolinea le problematiche etiche e giuridiche legate alla maternità surrogata specialmente in riferimento alle unioni Lgbt, chi evidenza che non esiste un diritto al matrimonio o al figlio e che quindi le coppie non eterosessuali possono rivendicare ciò che vogliono, ovvero altri diritti, ma non questi due diritti che non sono configurati e giuridicamente configurabili, è omofobo, cioè psichicamente malato e dunque da curare.
Si assiste ad una specie di contrappasso: se fino alla fine degli anni ’70 era la diversità dall’eterosessualità ad essere considerata un sintomo psichiatrico, oggi è proprio la diversità dell’eterosessualità ad essere considerata un fenomeno psichico degno di cura.
L’equazione è semplice: chiunque, in atti, pensieri, parole, opere o omissioni, non è gender-friendly è sostanzialmente omofobo, e chi è omofobo è un malato mentale che come tale deve essere curato.
La tesi, tuttavia, si rivela un boomerang per tutti coloro che sostengono la criminalizzazione dell’omofobia, cioè la necessità che sia approvata una norma che sanzioni penalmente l’omofobia, poiché chi agisce in stato di alterazione mentale non può essere ritenuto penalmente responsabile e dunque accusato di alcunché.
Occorre, dunque, che ci si decida: o l’omofobia è un comportamento discriminatorio e volontario, consapevolmente e liberamente scelto da chi lo mette in essere, lesivo di diritti altrui e come tale in grado di assurgere a fattispecie criminosa attraverso una apposita legge che reprima perfino il semplice pensiero discordante; oppure, è una patologia psichica e, come tale, non può essere oggetto di incriminazione, non più di quanto lo siano la depressione, il disturbo bipolare, la schizofrenia o altri disturbi mentali.
Non si può fare a meno di ritenere, dunque, che l’inossidabile convinzione dell’esistenza dell’omofobia, così come prospettata dalle comunità Lgbt e dai gruppi e dai sostenitori dell’ideologia genderista, altro non sia che una forma evoluta, questa sì, di vera e propria fobia: l’allodoxafobia, cioè la psicosi per le opinioni altrui, o meglio, per il pensiero diverso, ovvero l’espressione della vertigine totalizzante dell’ideologia gender, la manifestazione variata della storica follia totalitaria già vissuta nel XX secolo.
Sembra, in conclusione, che proprio per i sostenitori dell’esistenza dell’omofobia riecheggino le parole di Friedrich Nietzsche: «La follia è nei singoli qualcosa di raro – ma nei gruppi, nei partiti, nei popoli, nelle epoche è la regola».
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