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«Se non vogliono sapere che vivevamo a Zara, almeno sappiano che qui siamo morti»

Adriana Ivanov Danieli ci racconta la storia della sua famiglia e quella delle foibe. «Prima perseguitati, poi abbiamo vissuto il dramma di sentirci stranieri a casa nostra»

Matteo Fanelli
06/11/2015 - 1:00
Società
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esodo-dalmazia-ansa

Ci sono fatti che appartengono drammaticamente alla storia italiana, eppure sono rimasti per decenni e sino a non molti anni fa sepolti sotto le proprie macerie, dimenticati dai libri di testo, omessi dalla narrazione ufficiale. A parlarci della tragedia che ha colpito, tra il ’43 e il ’50, la popolazione giuliano-dalmata, è la professoressa Adriana Ivanov Danieli, originaria di Zara, che quei fatti li ha vissuti in prima persona, benché all’epoca fosse molto piccola.
«È una storia di grande dolore – dice Ivanov a tempi.it – di cui non ho memoria diretta. Quando sono diventata grande ho cominciato a prenderne coscienza. Ho cominciato a studiare e a chiedere a mio padre di raccontarmi. La storia della mia famiglia è la storia di due giovani sposi di 29 anni che sono scappati da Zara e sono venuti in Italia per vivere liberi e cristiani».

LA FAMIGLIA. Il padre di Adriana, Tommaso Ivanov, si iscrive a 20 anni alla Ca’ Foscari di Venezia, ma ben presto si vede costretto a partire per la guerra e, inviato a Mostar, soprattutto a constatarne gli orrori. Come in tante storie che riguardano la guerra, oltre alle atrocità, Tommaso ha assistito anche ad un gesto di grande umanità: «Le truppe italiane d’occupazione a Mostar – spiega Adriana – trasferirono l’intera comunità di ebrei vicino Ragusa in un “internamento preventivo” che li salvò dall’internamento vero, quello in Germania».
La mamma di Adriana, invece, fu una di quelle maestre che vennero inviate da Mussolini dopo l’occupazione della Jugoslavia ad insegnare l’italiano nelle scuole slave, all’insegna dell’italianizzazione forzata. Inutile sottolineare quanto i maestri in questa situazione erano malvisti e andavano al lavoro rischiando la propria vita.
Con l’armistizio del 8 settembre ’43 Tommaso è catturato e deportato dai nazisti in Germania. Qui conosce anche il dramma degli Internati Militari Italiani, un’altra pagina spesso rimasta nell’ombra. Ma questa è un’altra storia.

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LE FOIBE. Nel frattempo il confine italo-jugoslavo era divenuto una polveriera, con i partigiani di Tito che già avevano cominciato pestaggi, violenze ed uccisioni nei confronti di migliaia di persone appartenenti alla popolazione giuliano-dalmata. Ha inizio la tragedia delle foibe.
«Una volta rientrato in una Zara già occupata dai “titini” – prosegue Adriana – mio padre fu arrestato in quanto ex ufficiale. In cella assistette alla tragedia delle uccisioni, degli infoibamenti e degli annegamenti». Le foibe, infatti, sono le naturali cavità carsiche tipiche della regione istriana, dove vennero gettati i corpi di migliaia di italiani, spesso ancora vivi. Con gli anni è divenuto il simbolo di questa tragedia, ma non fu l’unico strumento di morte. Molti furono fucilati o fatti annegare nell’Adriatico, come per l’appunto avvenne a Zara e in tutta la Dalmazia.
Ancora oggi non possiamo sapere con esattezza il numero dei morti, e non lo sapremo mai. Il generale Tito, ovviamente, durante gli anni della dittatura, non permise mai controlli e ricostruzioni accurate. Di diverse persone e famiglie è andata perduta qualsiasi traccia.

PARTIRE. Con il Trattato di pace di Parigi del 10 febbraio (non a caso divenuta la data del “Giorno del Ricordo”) 1947, buona parte della Venezia Giulia fu assegnata alla Jugoslavia. La famiglia di Adriana, così come altre migliaia di italiani, doveva cominciare a fare i conti con la cosiddetta “opzione”: rimanere significava diventare cittadino jugoslavo, per rientrare in Italia occorreva fare domanda di rimpatrio e partire entro 6 mesi dalla sua accettazione.
Tommaso Ivanov, come la stragrande maggioranza della minoranza italiana, non ebbe dubbi: «Partire. Sono rimasti i poveri contadini o coloro che sognavano un paradiso rosso. Non si poteva restare, anche se questo avrebbe portato ad una nuova odissea. Mio padre ha presentato una prima volta l’istanza, che venne respinta per via del nostro cognome di origine slava. La ripresentò e venne respinta di nuovo. Una terza volta mio padre si fece aiutare da un avvocato e finalmente ottenne il via libera. Nel 1950 partimmo da Zara. Nel frattempo, nel 1948 i miei genitori si erano sposati e nel 1949 ero nata io».
L’arrivo in Italia non segna completamente la fine delle sofferenze. «Ci portarono nel campo profughi di Massa Carrara, di cui ho il primo ricordo di infanzia: le coperte che facevano da divisorio tra una “stanza” e l’altra. Poi i miei genitori sono diventati maestri di scuola e ci trasferimmo sulle Alpi Apuane e poi a Padova. Si è ricominciato piano piano, con dignità. Ricordo che mio padre e mia madre volevano essere dei buoni maestri, dei buoni educatori. È come se la tragedia che hanno vissuto li avesse portati ad amare di più l’Italia e a voler fare al meglio il proprio lavoro».

STRANIERI A CASA. Se si chiede ad Adriana il perché del suo impegno in favore di questa causa, si troverà che la risposta è tutt’altro che scontata: «Devo dare voce a questo dolore, come debito di riconoscenza nei confronti dei miei genitori. Il dolore non può essere vissuto per niente. Non lo faccio quindi per una questione ideologica, né innanzitutto storiografica, ma principalmente affettiva. Certo, anche per un riscatto storiografico. Anche oggi nei libri di testo si trova pochissimo di questa tragedia. Noi ci siamo sempre considerati italiani, ma una volta rientrati in Italia ci hanno bollati come fascisti perché scappavamo dal “paradiso rosso”. Per cui abbiamo vissuto il dramma di sentirci stranieri a casa nostra e respinti in una madrepatria che assomigliava di più ad una matrigna. Per anni mia madre mi ha detto di non parlare con gli amici o a scuola di quello che avevamo vissuto, perché gli altri avrebbero potuto non capire».

LA STORIA. Negli anni successivi all’esodo, la famiglia Ivanov tornò più volte nella propria città di origine, a Zara, e papà Tommaso, con pazienza certosina, dedicò tantissimo tempo a trascrivere tutti i nomi e le epigrafi delle lapidi del cimitero di Zara. Ne nacque un libro, Il Cimitero di Zara, ma soprattutto sorprendente è la frase con cui Tommaso spiegava questo lavoro: «Se non vogliono sapere che vivevamo a Zara, almeno dalle tombe sappiano che qui siamo morti».
Oggi si sta cominciando ad uscire dall’anonimato. Il Meeting di Rimini dello scorso agosto ha proposto un percorso sull’esodo giuliano-dalmata che ha riscosso un grande successo di pubblico: circa 14.000 i visitatori. Un modo di diffondere questa storia, di far conoscere attraverso le testimonianze il dramma vissuto da migliaia di italiani, per troppo tempo rimasto nel silenzio. Soprattutto per capire che dietro non ci sono interessi ideologici, ma la storia di persone, come Adriana e la sua famiglia, che hanno tanto sofferto senza mai perdere la propria dignità.

Foto Ansa

Tags: foibeItaliamussolinititozara
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