
Se non ora, quando?
Dunque si farà. Il 10 novembre prossimo, a Roma, ore 14, a piazza del Popolo. “Per una pace nella giustizia”. Chiamatela come volete: “sgambettata”, “manifestazione”, “marcia”, “giornata della riconoscenza”. Chiamatela come volete, ma alla fine è inutile che Francesco Rutelli chieda l’impossibile ritirata perché l’idea “buona” (conferma il leader della Margherita) non è venuta al “buono” (il Medesimo di Assisi): la vogliamo dare forte e chiara la nostra solidarietà a quel popolo multietnico, multicolore, multireligioso polverizzato nelle Torri Gemelle? Vogliamo dire “siamo al tuo fianco” alla nazione colpita al cuore, e che attaccata si difende, difendendo anche noi, liberi cittadini di una democrazia che farà pure difetto, ma non è che rendiamo grazie a Dio e amiamo il nostro prossimo col terrore del coltello, del tritolo e del carbonchio?
Proposta pedagogica (non pedante) a destra e sinistra
Questa è l’idea semplice e garbata (e facoltativa) che ha lanciato dal suo Foglio il direttore Giuliano Ferrara. C’è forse anche un invito alla sinistra a tirar fuori il meglio della sua tradizione e a contrastare il peggio, ovvero l’accidioso pensiero indipendente dalla realtà, che è corso così in fretta a cercare tutti i dubbi necessari per non far dire al cuore “non possiamo non dirci americani”? C’è della pedagogia in questa proposta di passeggiata sotto le stelle e strisce? «Esattamente. Per la sinistra. E anche per la destra. Questa è la novità. Cioè: primo, nessun esame del sangue sul tasso di filoamericanismo alle diverse componenti civili, politiche e culturali di questo paese. Sarebbe non pedagogia, ma pedanteria. Al contrario. Manifestare è veramente facoltativo, soprattutto se si tratta di porre le famose ragioni del cuore che la ragione non conosce. La manifestazione è un’adesione psicologica, spirituale a una certa koiné nella quale si trova oggi il mondo, che è partita da questo episodio simbolico che è stato l’abbattimento delle Torri. Quindi, per carità, nessun conformismo, nessun convenzionalismo».
Però al retropensiero sardonico è venuto subito da dire: ma è chiaro, questo è un grazioso dono al governo Berlusconi. «E invece no. Così è Il Foglio, se vi pare. L’idea è nata piano piano. Prima abbiamo avuto il sentimento di pubblicare la bandiera di Jasper Jones, quindi una bandiera desacralizzata, quella degli artisti pop. Poi una riflessione sulla strana circostanza per cui tutto era relegato al Palazzo e nella società c’erano solo equivoci, ambiguità e distinguo. Il che non significa che si debba smettere di fare politica, che non si debbano criticare gli atti di politica estera degli Stati Uniti, che non si debba essere liberi, indipendenti e autonomi. Però sarebbe bello se questa volta lo si potesse fare al di fuori di una logica ipocrita. In quella frase “niente sarà mai più come prima”, che è grottesca perché eccessiva, l’unica cosa che salverei è questa: cerchiamo almeno di non essere ipocriti. Siccome il capogruppo di An dice in Parlamento “I am an American”, allora a uno viene voglia di dire: sei tu che lo hai detto, no? Allora fatti una passeggiata col Tricolore e insieme con la bandiera americana. Come D’Alema che ha detto “non ho sentito nemmeno un coro di condanna del terrorismo”. E allora: vieni anche tu ad ascoltare, vedrai che lì di cori contro il terrorismo ce ne saranno. In questo senso è proprio una classica provocazione».
L’ipocrisia dei Nando Moriconi
Per quello che ne sappiamo, la tua idea è popolare. L’abbiamo visto in certe scuole tra gli studenti, se trovi il modo di far saltare il tappo di certa ideologia, tu ti accorgi che tra i ragazzi c’è proprio voglia di dire “grazie, America”. «Uno dei meno apprezzati tra gli opinionisti della sinistra faziosa, astiosa, rancorosa, Curzio Maltese, in un suo corsivo su Repubblica, in un ridicolo equivoco, ha parlato di Alberto Sordi, Un americano a Roma, e lo ha chiamato Nando Meniconi invece di Nando Moriconi. Vabbé, si può non sapere niente, avere la memoria labile, ma quello è l’altro aspetto, quando tu dici “popolare”. C’è un mito americano, anche iconografico, in Italia e deve essere sciolto dalle sue ipocrisie. Mi ha fatto piacere che Arbore abbia aderito. Tutti vogliono la cittadinanza americana, il mercato americano, un buon rapporto con l’America. Persino Berlinguer, che dio solo sa se non era un leader con un’impronta ideologica, tra cominternismo e post-cominternismo, comunque molto forte, anche molto nazionale, sarda, la cosa più lontana possibile dall’America, quando si è voluto togliere dall’imbarazzo delle eccessive attenzioni dei russi e ha cercato di fare l’eurocomunismo ha detto “ci sentiamo meglio sotto l’ombrello della Nato”. Tutti in realtà hanno bisogno dell’America e tutti però quando viene il momento si sentono in dovere di mettersi dietro lo scudo della retorica antiamericana. “Se non ora, quando?” – come diceva il rabbino Hillel. E aggiungeva: “e se non sono io per me, chi sarà per me?”, cioè è un istinto di autodifesa. Io non sono per la guerra fra religioni ed è sbagliato dire “superiorità della cultura occidentale”, ma che questa ci sia, esista, abbia delle radici, che abbia uno scudo difensivo del quale fa parte anche la bandiera americana, questo stavolta bisogna dirlo».
Dopo l’11 settembre, una questione di cultura e moralità
Insomma, se non ora quando? «Sì, sono stati colpiti in quel modo atroce… perché il bombardamento dell’Afghanistan, gli americani sono stati obbligati a farlo. Sono stati obbligati ad assumersi di nuovo il ruolo di gendarmi del mondo. Tutti vanno lì e chiedono qualcosa. I russi dicono “vengo, ma devi darmi la Nato e la Cecenia”. I cinesi dicono “vengo ma devi darmi Taiwan e lo Xinjang e la lotta contro il fondamentalismo islamico”, gli arabi moderati dicono “sì, veniamo, ma devi darci un sacco di soldi e aiutarci per la stabilità politica”, gli europei dicono “sì, veniamo ma…”. C’è sempre un “ma”, un distinguo. Allora se c’è questo grande negoziato globale all’ombra della sicurezza garantita dagli americani, allora facciamoci una bella passeggiata in una città non marginale, in un teatro straordinario quale quello di Roma, in nome di un piccolo raccordo tra ciò che siamo noi, col nostro Tricolore, e ciò che simbolicamente hanno rappresentato loro da quando l’11 settembre abbiamo acceso la televisione alle tre del pomeriggio e abbiamo visto il bombardamento di New York. E sono sinceramente tramortito dal fatto che l’idea non sia venuta prima. Hanno ragione a sinistra quando dicono “però noi una piccola manifestazione unitaria di solidarietà con gli Usa l’abbiamo fatta”. Ma non è cosa inimportante che non ci fossero le bandiere americane. E non è cosa inimportante che l’abbiano fatta sull’onda di una grande emozione, subito dopo gli attentati, dimenticandosela però, e partecipando alla marcia Perugia-Assisi anche con le loro posizioni, per carità, e le rispetto, ma insomma sempre concessivi, senza creare la rottura, l’“adesso basta”. Non gli è venuto in mente. Né a loro né a nessun altro. È bene che sia venuto in mente nell’ambito della famiglia Berlusconi. Perché no? Senza ostentazione, senza volerne fare uno strumento di crescita e legittimazione del governo, ma proprio con l’ansia di ristabilire, di mettere come un enorme punto su un’enorme “i”. Se Massimo D’Alema, che è avversario politico rispettato dal Foglio, ma avversario politico, avesse detto “tutti a piazza San Giovanni con le bandiere americane in solidarietà con gli Usa”, dando questo accento di rottura con la tradizione iconografica e politica precedente, giuro che io ci sarei andato, non avrei trovato nessun motivo per non andarci. E come me penso che ci sarebbe andata tanta gente. Il problema è che non solo non l’hanno fatto, ma hanno subito cominciato a fare degli inutili distinguo. E invece il 10 novembre non è una questione politica, è una questione di cultura e di moralità. Solo questo».
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