Se Israele perde la pace, la perde l’Occidente intero

Di Reibman Yasha
30 Novembre 2006

La crisi di Israele è la nostra. Più di dieci anni di processo di pace, da Madrid a Camp David, la costituzione dell’Anp e il ritiro da Gaza e dal Libano hanno prodotto per ora il terrorismo della seconda Intifada e il lancio di missili sulle città israeliane. L’interlocutore non è finora stato affidabile. La leadership palestinese ha in un primo tempo riconosciuto il diritto all’esistenza di Israele, ma poi ha seguito le sirene del fondamentalismo ed è tornata a sognare la distruzione del nemico sionista. Nemmeno la risposta militare israeliana tuttavia ha portato a una netta vittoria. Il terrorismo è stato ridotto, anche grazie alla barriera di sicurezza, ma i missili continuano ad arrivare, mentre Hezbollah si riarma sotto gli occhi dei soldati Unifil e si prepara a una prossima offensiva, magari insieme alla Siria. Nel frattempo l’Iran procede col nucleare.
La crisi nasce dalla piena consapevolezza che l’emozione della stretta di mano tra Rabin e Arafat e l’illusione che fossimo a un passo dalla pace sono spazzate via: la strada è ancora lunga. Non sembra esserci spazio per il colpo di teatro. Senza abbandonare qualunque possibilità di dialogo, va ripensata allora una strategia di lungo periodo. La scommessa potrebbe essere quella di aiutare la crescita di una nuova dirigenza araba moderata e democratica, osteggiando le dittature, finanziando i dissidenti, dando loro spazi e voce. Dicono che Israele non possa vincere questa guerra da solo, nemmeno l’Occidente può riuscirci senza Israele.

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