Il compito che ci aspetta dopo la strage al tribunale di Milano
Una sconvolgente circostanza ci ha convocati in questo Duomo, in qualche modo come rappresentanti di tutti i milanesi e non solo. Il nostro cuore è ancora colmo di angoscia per l’orrore di tre brutali omicidi e di due ferimenti.
Il mio saluto affettuoso e riconoscente va anzitutto ai familiari, parenti ed amici delle vittime. Lo rivolgo con deferenza al Capo dello Stato, ai Presidenti del Senato e della Camera, al Ministro della Giustizia, al Presidente della Corte Costituzionale, al Consiglio Superiore della Magistratura, alle autorità milanesi, a quelle civili e militari e alle Forze dell’Ordine. Con speciale intensità saluto i Magistrati, gli Avvocati e tutti gli operatori del Tribunale di Milano. A tutti i fedeli qui presenti e a quanti ci seguono attraverso i media rivolgo un saluto di pace.
Cerchiamo di affidarci alla convinzione universalmente valida del Libro della Sapienza: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio. Nessun tormento le toccherà. La loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro dipartita da noi una rovina. Ma essi sono nella pace» (Sap 3,1-3). Sono solo parole? No, sono realtà. E non unicamente per quanti sono stati battezzati in Cristo ma per tutti. Tutti infatti, più o meno a tentoni, cerchiamo il significato e la direzione di cammino per la nostra esistenza. Continua il testo biblico: «Coloro che gli sono fedeli vivranno presso di lui nell’amore» (Sap 3,9). L’amore può vincere realmente la morte, anche questa orribile morte. Ce lo insegnano i familiari delle vittime. Vittime che sono testimoni giusti, perché quotidiani e discreti servitori del bene comune. L’amore dei loro cari possa trovare consolazione nel Vangelo di Giovanni: «Colui che viene a me non lo respingerò… Io non [perdo] nulla di quanto [il Padre] mi ha dato, ma lo [risuscito] nell’ultimo giorno» (Gv 6,37.39).
E cosa dice a noi milanesi questo tragico morire? Possiamo fermarci alla comprensibile paura, alla giusta elaborazione di più rigorosi sistemi di sicurezza, a dialettiche, talora strumentali, tra le parti? Se la morte chiede di essere abbracciata dall’amore non abbiamo forse bisogno di fare di questo amore una sorgente di amicizia civica, un incisivo criterio di edificazione di Milano e delle terre lombarde in profonda trasformazione? Non è questo un compito da riservare solo a quanti hanno responsabilità istituzionali. È qualche cosa che, come ci insegnano, in addolorata dignità, i familiari delle vittime, deve cominciare dal profondo di ogni uomo e di ogni donna della nostra metropoli. Da queste morti deve nascere una maggior responsabilità di educazione civica, morale, religiosa, instancabilmente perseguita da tutte le agenzie educative, dalla famiglia, alla scuola fino alle Istituzioni. Non lasciamo che sulle figure di questi nostri cari si stenda la coltre soffocante dell’oblìo. Mantenere desta la loro memoria è garanzia di fecondità.
Con travaglio l’Arcivescovo non può non volgere ora un pensiero all’assassino. Le vittime innocenti di questo sciagurato pluriomicida ci chiedono almeno di pregare perché Claudio Giardiello, attraverso la giusta pena espiatoria, prenda consapevolezza del terribile male che ha compiuto fino a chiederne perdono a Dio e agli uomini che ha così brutalmente colpito.
Carissimi, mi permetto di suggerire a tutti, anche a chi non crede, un gesto semplice che possa supplire alla radicale insufficienza delle parole che vi ho rivolto: guardiamo il Crocifisso, magari prendendone in mano l’effigie. Fino a quella croce tutte le donne e tutti gli uomini possono giungere come mostra la storia delle nostre terre. Il Crocifisso ha realmente preso su di sé anche il più ributtante male dell’uomo. Lasciamoci guardare da Lui: nella indicibile pena il Crocifisso risorto sia il nostro conforto. Come promettono le ultime parole della Bibbia, «asciugherà ogni lacrima dai (nostri) occhi» (cfr Ap 21,4). Amen.
Foto Flickr / Ansa
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