
Scene di ‘ordinaria democrazia’ al Tasso di Roma
Scena 1 – Interno giorno (un qualsiasi giorno di primavera nei primissimi anni Novanta), campo lungo sul corridoio maestro al secondo piano del liceo classico romano Torquato Tasso. Circa cento ragazzini fra i quindici e i diciott’anni sfilano imbrancati dietro ai capetti del Collettivo. Gridano: «Camerata, basco nero, il tuo posto è al cimitero». Ha l’aria di essere un corteo interno all’istituto. Si dirige verso una porta su cui si stringe l’inquadratura. Primo piano sul cartello V C.
Scena 2 – La professoressa Maria Paola P. sta spiegando ai propri studenti di V ginnasio i «debiti concettuali» che Virgilio aveva contratto con l’Apollonio Rodio autore delle Argonautiche per poter comporre l’Eneide. Sta discettando del quarto libro, il più bello, il così detto “epillio eziologico” nel quale Virgilio certifica l’odio secolare tra Roma e Cartagine attraverso la vicenda di Enea e Didone che si amano ma poi lui lascia lei e lei ne soffre fino ad ammazzarsi. La classe ascolta muta (non tutti seguono la lezione).
Scena 3 – Di punto in bianco un calcio da fuori spalanca la porta e l’inquadratura si sposta sul branco dei ragazzini urlanti (si può scorgere bene la prima fila). Una voce: «Vogliamo il fascista». Gli studenti in aula si voltano contemporaneamente verso un ragazzo seduto al secondo banco. Primo piano sulla prof: «è qui, prendetelo, basta che mi facciate concludere la lezione».
Non è che poi sia successo granché. Qualche spintone con i soliti esagitati, forse un calcio (ma il conto tra dare e avere fu alla pari), il corteo interno finì per sciogliersi fra slogan antichi e senza sangue. Non è che accadesse tutti i giorni. Però accadeva, al borghesissimo liceo Tasso, dove anche questo era il bello di essere uno dei quattro corpi estranei alla massa (non di più, quando c’era da battagliare, circa 50 secondo una media dei voti raccolti negli anni quando bisognava rinnovare la delegazione studentesca al Consiglio d’istituto). Il bello è che in tutto questo non c’era un atomo di democrazia ma proprio in nome della democrazia quelli strappavano i tuoi manifesti, tentavano di non farti parlare in assemblea e quando riuscivi ad acciuffare il microfono l’avevano appena sabotato. Quanto alle femminucce, formidabili riunioni del collettivo rosa per stabilire se scopare con un fascio era più o meno grave che abbandonare la lotta di classe (ma poi prese singolarmente, al diavolo Marx e il femminismo). I professori sinceramente democratici, in testa il preside, facevano il resto: il tuo giornalino non ha diritto ai finanziamenti scolastici; l’auletta autogestita per quanto ti riguarda è sbarrata a quattro mandate; come sgarri ti faccio sospendere; il libro di testo social-marxista è in-di-scu-ti-bi-le. Altro tipo di fauna non c’era o se c’era se ne stava acquartierata nel nulla. Invece di piagnucolare, noialtri si faticava per corrompere la bidella (o mettersi d’accordo con l’unico bidello camerata) pur di entrare a scuola alle sette e tappezzare i muri di manifesti sovversivi e quindi godersi l’effetto sui volti ostili. E per ogni microfono sabotato spuntava un megafono da stadio nascosto dentro lo zaino. Con i docenti? I più anziani, sebbene totalitari e rozzi, guardavano alla sostanza, premiavano l’intelligenza e la preparazione (o la credibile finzione d’essere intelligenti e preparati). Insomma bastava studiare poco oltre il necessario e rassegnarsi a cercare il pluralismo fra i libri domestici. I più giovani erano come gli studenti ma senza la scusa dell’età.
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