Non vogliamo consigliare a nessuno di andare ad Arles (dove, come ogni anno, sino a metà agosto si tengono i Rencontres de la photographie, forse la più importante rassegna al mondo di questo genere) per vedere la mostra di Hermann Nitsch. Intendiamoci, Nitsch è uno dei pochi artisti davvero interessanti, scandalosamente imprevedibili che ci siano in circolazione. È uno che non si pone mai limiti, che non ha il problema della tollerabilità delle sue opere, che gronda crudeltà. Ha una visione dell’arte che straborda dalle tele, per cui le sue opere sono performance (o vere incrostazioni, esito di performance). Ha un chiodo fisso, dal punto di vista iconografico: la crocefissione. Attorno a quel chiodo ha costruito una serie di meditazioni visive, cercando ogni volta di ridurre lo scarto tra realtà e rappresentazione. Cioè cercando sempre, nelle sue opere, qualcosa che non sfigurasse davanti alla verità della carne lacerata. Cioè che reggesse a quella temperatura tragica. La serie delle sue T shirt immense, con le maniche aperte come moncherini di un crocefisso contemporaneo, certo sono tra le immagini più forti e terribili prodotte dall’arte di questi ultimi anni. Quando gli chiedono di trovare una ragione alla febbre che pervade le sue opere, Nitsch ripete che la morte è la sua ossessione. Poi, allargando lo sguardo alla sua contemporaneità, sottolinea che oggi la morte è un tabù molto, molto più grande del sesso e che la più grande delle provocazioni è guardare la morte in faccia. Avrete capito a questo punto perché non consigliamo di andare a vedere la mostra di Nitsch ad Arles. Ma questo “non consiglio” richiede anche una postilla: l’arte contiene in sé, quando è davvero grande, qualcosa di intollerabile. Ci sono artisti il cui tasso di intollerabilità è tale che ogni tentativo di inglobarli diventa ridicolo e irrispettoso (un caso su tutti: Francis Bacon: chi, guardando i suoi quadri, non ha un moto di ripulsa, non li ha guardati bene). Ce ne sono altri la cui tollerabilità è solo apparente: come Caravaggio, realista certamente, ma sulla densità cupa delle sue ombre ci sarebbe molto da dire (e lo sporco delle unghie nella Buona Ventura, di cui ha parlato Tadini la scorsa settimana sul Corriere della Sera, non è solo un marchio sociologico; è l’impronta di un’anima braccata, è il segno di un incancellabile istinto al delitto). Quindi, per favore, non rendiamo tollerabile ciò che non lo é. Piuttosto voltiamo la testa dall’altra parte.
Reg. del Trib. di Milano n. 332 dell’11/6/1994
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Emanuele Boffi