Risposta a Vendola che insulta Ratzinger. Storia di don Marco Bisceglia

Di Emanuele Boffi - Pino Suriano
15 Aprile 2019
L'ex presidente di Sel attacca lo scritto di Benedetto XVI su pedofilia e omosessualità. C'è una vicenda istruttiva che lega le loro vite

Sarebbe fin troppo facile scendere sul terreno fangoso di Nichi Vendola e rendergli la pariglia di insulti, così come lui ha fatto sul sito di Michele Santoro con papa Benedetto XVI. Beninteso, se li meriterebbe tutti, visto il tono con cui l’ex presidente di Sel ha commentato l’intervento del papa emerito su pedofilia e omosessualità pubblicato dal Corriere della Sera.

«Vecchiezza estrema, antichità, sguardo luciferino, anti-Papa, azzannare i suoi nemici, fede marziale e cingolata, teologia dogmatica e integralistica,
nostalgico dell’Inquisizione, campionario di anatemi, sacrale malafede, comico, prediche omofobe e tradizionaliste, liturgia dell’ipocrisia, mediocrità di un testo che vale quanto un manuale per esorcisti», sono gli stilemi linguistici usati dal
“poeta checcozaloniano” Vendola nella sua sguainata recensione di quelle 18 pagine. Fino alla surreale accusa di aver voluto chiamare alle «armi contro papa Francesco» e, udite udite, l’insinuazione obliqua di essere un «diavolo che veste Prada».

Quello di Vendola non è un commento, è lo sfogo di un risentito e, dicevamo, sarebbe troppo facile abbassarsi al suo livello. Qui, invece, si vuole provare ad alzarlo, usando non un contro-discorso, ma un racconto, una storia drammatica e intensa che, qualche anno fa, con mirabile penna, Pino Suriano raccontò su Tempi. Una storia che incrocia la vita di Vendola con quella di Ratzinger e con quella di don Marco Bisceglia, sacerdote, omosessuale, sieropositivo, “padre dell’Arcigay”. Dovete leggerla, è la miglior risposta possibile alle sciagurate parole di Nichi. (eb)

Chi fondò l’Arcigay? Don Marco Bisceglia. E questa è la sua (straordinaria) storia

Pino Suriano, Tempi, 9 settembre 2013

Ai tanti che non lo hanno mai saputo potrà sembrare un’assurda fantasia, ma è semplicemente un fatto: l’Arcigay è stata ideata da un prete. Sì, l’associazione per i diritti omosessuali più importante e numericamente rilevante d’Italia deve la sua anima a un consacrato, omosessuale egli stesso. Accadde a Palermo nel dicembre del 1980 e quel sacerdote, allora quasi sessantenne e sospeso “a divinis” alcuni anni prima, si chiamava Marco Bisceglia, per tutti don Marco. Suo compagno di avventura nonché di appartamento, nei mesi successivi, un giovane obiettore di coscienza in servizio civile presso l’Arci, Nicola Vendola detto Nichi.
Chiare le premesse? Adesso, però, non ci si scandalizzi per il giudizio in arrivo, forse ancor più sorprendente: la storia di don Marco è una delle più belle storie di vita che si possano raccontare. Di quelle che rendono palese, per chi non lo credesse, quale straordinario luogo di accoglienza e ripresa umana possa essere la Chiesa.
Nelle scorse settimane, per la collana “DietroFont” dell’esordiente casa editrice lucana EdiGrafema, è uscito un libro (acquistabile su Ibs) che ne percorre la vita: Troppo amore ti ucciderà, con testimonianze di Vendola, Franco Grillini e Beppe Ramina. O meglio, ne percorre le “tre vite”, come recita il sottotitolo del testo, ben scritto e documentato dal giornalista potentino Rocco Pezzano. Nella biografia del sacerdote, infatti, si riconoscono almeno tre momenti di profondissimo strappo per contenuti e stili di vita.

IL PRIMO MATRIMONIO GAY. Nella sua “prima vita” don Marco Bisceglia è un prete di lotta. Nato nel 1925, sacerdote dal 1963, ha studiato e abbracciato la Teologia della Liberazione, in particolare la lezione del poco ortodosso teologo gesuita José Maria Diez-Alegria Gutierrez. Quando gli viene affidata la parrocchia del Sacro Cuore di Lavello, suo paese di origine in Basilicata, il desiderio di esprimere i propri ideali si trasforma in azione. La difesa dei più deboli è per don Marco l’autentico contenuto dell’evangelizzazione. Le cronache dell’epoca iniziano a chiamarlo “il don Mazzi del Sud”.
Don Marco si oppone a tutto ciò che reputa ingiusto, soprattutto all’interno della Chiesa: i funerali a pagamento, per esempio. La lotta al celibato dei sacerdoti, le operazioni finanziarie, le banche, gli investimenti immobiliari, l’arricchimento di alcuni preti con la speculazione edilizia. E la gente si lega a lui: tanti braccianti mai stati in chiesa prima d’allora, si ritrovano a seguirlo nelle sue battaglie, spesso vicine a quelle del Partito Comunista.
Don Marco esprime con toni forti, anche in pubblico, durante le omelie la sua opposizione decisa alla Chiesa e alla sua struttura organizzativa. Ne nasceranno presto contrasti con il vescovo della diocesi. Non solo per le idee, ma anche per le azioni. Don Marco, infatti, non si ferma alle parole. In quegli anni, assieme alla sua comunità, è protagonista e animatore di scioperi al fianco di lavoratori, blocchi stradali e altre forme di protesta “borderline”, talvolta con conseguenti procedimenti penali. Il 30 settembre 1974, in un clima di esasperata contrapposizione e dopo alcune richieste di ravvedimento, arriva il decreto di rimozione da parte del vescovo Giuseppe Vairo: la parrocchia del Sacro Cuore è dichiarata vacante. Le ragioni non mancano: adesione al movimento radicale per la depenalizzazione dell’aborto e la libertà sessuale; uso della parrocchia come sede dei comitati per i referendum; assenze continue; violenti attacchi a Chiesa cattolica, clero e gerarchia. Poi un’accusa anomala, «scelta socio-rivoluzionaria», e un’altra più drammatica, ma decisiva, «chiara rottura della Comunione col vescovo».
Da quel momento la vicenda prende una piega inattesa, che porterà a Lavello i corrispondenti dei maggiori quotidiani e settimanali italiani. La comunità del Sacro Cuore, infatti, non accetta il decreto e si barrica all’interno della chiesa, letteralmente la occupa. Sulla facciata del Sacro Cuore compare una scritta: “La Chiesa è del popolo”. È una dichiarazione di intenti. Lavello diventa un caso nazionale, un parroco e il suo popolo contro il vescovo e la Chiesa “ufficiale”.
Ma il fatto che più avrebbe fatto parlare di don Marco era accaduto pochi giorni prima di quella pubblicazione. È quello che le cronache ricorderanno per anni, seppur impropriamente, come il «primo matrimonio gay celebrato da un sacerdote italiano». Un giorno due omosessuali si presentano nella sagrestia e chiedono se la loro unione possa diventare sacra. «Il vostro matrimonio è già un sacramento di fronte a Dio», spiega don Marco. Quei due signori, in verità, non erano omosessuali ma Bartolomeo Baldi e Franco Iappelli, giornalisti del Borghese che registrano e spiattellano tutto sul giornale. Il 9 maggio 1975, il vescovo prende ulteriori provvedimenti: «Al sacerdote è proibito ogni atto di sacro ministero», si legge nel documento della curia. È la sospensione a divinis. Da quel momento l’immagine di don Marco, agli occhi della gente, si aggrava. Ma per don Marco non è un dramma. Tutto continua come prima. Si celebra, si fanno i sacramenti, si legge la Parola di Dio. Eppure il legame coi fedeli è sempre più debole. Le presenze si diradano, molti cominciano a staccarsi. Le foto dei primi anni di “occupazione” della parrocchia, sempre stracolma di gente, e quelle “spoglie” degli ultimi tempi, offrono l’immagine di questo progressivo distacco. È drammatica l’immagine dell’ultima Messa, il 25 aprile 1978, con don Marco che celebra tra poche vecchiette e dietro una fila di carabinieri e poliziotti.

LA CONVIVENZA CON NICHI VENDOLA. Don Marco si ritrova da solo, senza lavoro, senza futuro, ma soprattutto senza rapporti con la Chiesa. Un “disoccupato” in cerca di patria. Eppure non perde occasione per far parlare di sé. Il 3 giugno 1979 sono previste le elezioni politiche. Pochi mesi prima si presenta dal sacerdote un vecchio amico di tante battaglie con un’ipotesi scioccante: candidarsi con i Radicali. Quell’amico è Marco Pannella. Don Marco accetta: «Se si vuole essere liberi – scrive in quei mesi – bisogna necessariamente essere eretici. Personalmente non posso non essere uno di loro». La candidatura fa rumore, ma i voti non bastano per entrare in Parlamento.
In quei mesi, mentre Bisceglia è ancora impegnato con i Radicali, avviene un incontro decisivo. In «circostanze fortuite», ricorderà poi, incontra a Roma Enrico Menduni (presidente, dal 1978 al 1983, dell’Arci, storica associazione culturale della sinistra italiana) che propone a don Marco di curare l’aspetto organizzativo dell’Arci per la “sezione” diritti civili. Nasce da lì, nel giro di poco, il copyright dell’Arcigay, “proprietà” di Marco Bisceglia.
La fondazione ufficiale arriverà solo nel 1985, ma come si legge sul sito arcigay.it: «Il primo circolo Arcy-gay nasce informalmente a Palermo il 9 dicembre del 1980 da un’idea di don Marco Bisceglia, sacerdote cattolico dell’area del dissenso» (a destra, la conferenza stampa di presentazione dell’Arcigay. Si riconoscono don Marco e Franco Grillini, secondo e terzo da sinistra, e Nichi Vendola, secondo da destra).
Di qualche anno prima è il coming out di don Marco: la pubblica dichiarazione di omosessualità. Marco è già attivo da tempo nell’organizzazione dei diritti gay, ma non ha ancora liberato del tutto la sua, di omosessualità. Difficile ricostruire la data e la testata che avrebbe dato spazio alla clamorosa dichiarazione (qualcuno ricorda Panorama), ma nell’aprile 1982 un articolo di Andrea Marcenaro sull’Europeo ne parla come un fatto noto: «I preti omosessuali esistono, ma uno solo si è dichiarato», si legge. Quell’uno, naturalmente, è Marco Bisceglia. In quel periodo vive con 400 mila lire al mese (tanto è lo stipendio) e a stento riesce a recuperare i contributi da religioso per garantirsi una pensione. Risalgono a quegli anni l’amicizia e la convivenza con Nichi Vendola, che non smetterà mai di considerarlo «un maestro». I due vivono insieme per qualche mese a Monte Porzio Catone, nella casa di don Marco. Intanto con l’Arci, da qualche tempo, sorgono i primi problemi. Don Marco, in modo lento e silenzioso, si fa da parte. Non si avrà mai una vera e propria rottura, ma una sfumata e continua presa di distanza. E così, proprio quando la sua creatura metterà le ali per diventare un punto di riferimento nazionale, calerà il sipario sul suo padre nobile. Da quel momento si perdono le tracce di Marco Bisceglia. Una volta era inseguito dai cronisti di tutta Italia, da quel momento quasi nessuno scriverà più un rigo su di lui, e nessuno si preoccuperà di scoprire come finì i suoi giorni. È questo il merito più grande di Rocco Pezzano.
Nel luglio 1987 Bisceglia appare ormai lontano dall’Arcigay. Dalle sue lettere si apprende che si trova ancora a Monte Porzio Catone, dove convive con l’omosessuale Dadì, trentenne di origini algerine. In quei giorni scrive la sua lettera più intima, forse la più bella. È una sorta di diario epistolare destinato agli amici Carla e Wouter. Racconta di aver letto La conoscenza di sé, opera del filosofo francese René Daumal. «Ci sto trovando – scrive don Marco – alcune cose che stanno accadendo in me. Nonostante tutto, l’età dell’oro esiste sempre, simultaneamente, in rare persone, ma sta a noi meritare di poterle individuare e avvicinare». In quelle parole c’è tanto, troppo, della sua imminente svolta per non leggere l’affacciarsi in lui di una nuova prospettiva di liberazione (l’età dell’oro). Non più ricercata in un’organizzazione, in uno sforzo di cambiamento sociale, ma in un modestissimo desiderio di prossimità a persone autentiche.

IL RITORNO E LA RICONCILIAZIONE. In un giorno della prima metà degli anni Novanta, squilla il telefono della parrocchia di San Cleto a Roma, quartiere San Basilio. A un capo della cornetta c’è padre Paolo Bosetti, responsabile della parrocchia, dall’altro monsignor Luigi Di Liegro, fondatore della Caritas diocesana. La richiesta del prelato è quella di accogliere un sacerdote, il quale, però, porta con sé un tremendo fardello: l’Aids. «Cosa dobbiamo fare?», chiede padre Paolo. «Vogliategli solo bene», risponde il monsignore. Sarà così. Don Marco comincia, in punta di piedi, una nuova vita assieme ai confratelli della Congregazione di Gesù sacerdote che lì convivono. Poche parole, tanto tempo libero, nessun impegno parrocchiale.
La vita trascorre lenta, don Marco, semplicemente, segue e comincia a vivere tutte le tappe della giornata: lodi, Messa, cena. Sempre creativo e autonomo nelle scelte culturali, accetta anche consigli su cosa leggere: comincia dal Presbyterorum Ordinis, un decreto del Concilio Vaticano II sul ministero e la vita sacerdotale; poi l’Optatam Totius sulla formazione sacerdotale; senza tralasciare naturalmente Bibbia e Vangeli. Testi fondamentali se si pensa alla sua vita passata. Decisivi perché letti con occhi diversi. Don Marco si mette in discussione, come uomo e come sacerdote. Il suo passato è noto a tutti, ma nessuno ne parla. «Solo una volta è successo», ricorda padre Paolo. «Don Marco diceva di non rinnegare nulla, ma di voler prendere le distanze dal passato, per “qualcosa che gli gira dentro”, dice. E su cui don Marco vive e medita con serenità».
Vivendo al fianco di altri sacerdoti fiorisce nel suo cuore il desiderio più bello: tornare a celebrare l’Eucaristia. Sono trascorsi, dall’ultima volta, almeno quindici anni. Don Marco ne parla con i confratelli. Non può essere il capriccio di un istante, e allora si approfondisce la questione. A frenare tutto c’è la sua sospensione a divinis. Ma non è un ostacolo insormontabile. La persona da informare è il vicario generale, il cardinale Ugo Poletti (colui che fa le veci del Vescovo di Roma, allora Giovanni Paolo II), che si prodiga per la vicenda e che spiega che c’è un unico passo decisivo da fare: la supplica.
Don Marco prende carta e penna e stende la sua richiesta. La figura a cui presentare la supplica e che deve valutarla è il prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, Joseph Ratzinger. Dopo qualche tempo arriva la risposta: la sospensione a divinis è cancellata. Qualche giorno dopo don Marco ne dà notizia alla sorella Anita: «Sono cosciente della mia indegnità, così come sono fermamente fiducioso nel perdono di Dio e nella sua azione purificatrice e rigeneratrice. Spero di potere, con il suo aiuto, riparare ai miei errori e traviamenti». Quella missiva arriva da Loreto. Padre Bosetti ricorda: «Se si riprende a celebrare l’Eucaristia, che è il corpo di Cristo, non si può farlo senza la riconciliazione». E così è stato. Il giorno della “prima Messa” arriva a Loreto una delegazione della vecchia diocesi di don Marco, guidata da monsignor Vincenzo Cozzi. Quella Chiesa a lungo contestata è lì per riabbracciarlo nel giorno più bello. Nessun passato può vincere il presente: i rancori e le incomprensioni sono fatti reali, concreti, ma non prevalgono. È la festa del perdono e della rinascita, è l’Eucaristia.

GLI ULTIMI ANNI, DURI MA INTENSI. Quelli che restano da vivere sono anni duri ma intensi. Non è semplice la vita per un malato di Aids, tra continue visite e frequenti ricoveri. «Eppure lui è sereno», racconta Vittorio Fratini, un amico. Una serenità che diventa conforto per gli altri, come testimonia un compagno di stanza in ospedale. Vittorio gli chiede da dove gli provenga questa gioia. La risposta è di quelle che non si dimenticano: «Ricordati che io ero morto e sono risorto. Se devo andare verso la fine della mia vita, ci vado con tanta serenità». Una delle ultime lettere di don Marco è del 4 aprile 2001. Risponde all’amico Giancarlo che si lamenta delle gerarchie ecclesiastiche. Don Marco rompe gli schemi. Prima spiega di esserne consapevole, poi aggiunge: «Non lasciamoci irretire da facili stereotipi. Il mio vescovo è un uomo mite, ricco di umanità, ha favorito la mia reintegrazione, pur sapendo di avere a che fare con un soggetto sieropositivo». È sorprendente. Il vecchio sguardo polemico su ciò che nella Chiesa dovrebbe o non dovrebbe esserci, ha lasciato il passo a uno sguardo pieno di gratitudine per quello che c’è.
L’ideologia ha lasciato il posto all’esperienza. Marco Bisceglia muore il 22 luglio 2001, nei giorni del G8 di Genova. Il “contestatore” muore in un giorno di contestazione. Ma quanto è lontano quello scenario di lotta dalla pace che regna ora nel suo cuore. Oggi riposa nel cimitero di Lavello, nella cappella dedicata ai sacerdoti.

Foto Ansa

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